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Lettera da Gaza n°7

Fabrizio Bettini

Mohamed , 12 anni, abita a Khan Younis, nel quartiere di Namsawi; qualche mese fa un proiettile gli si è conficcato in una gamba e i chirurghi della Striscia, non riescono ad estrarlo. Mohamed si muove a fatica e per questo non va più a scuola, mentre sua madre soffre di problemi psicologici da quando, l’anno scorso, una granata è entrata nel loro appartamento attraverso una finestra; suo padre è disoccupato, tutti dormono assieme nella stanza più riparata dell’appartamento e i suoi fratelli piangono la notte quando sentono sparare.

La famiglia è originaria di Rafah, da dove è partita circa un anno e mezzo fa dopo che la loro casa è stata abbattuta "per motivi di sicurezza". Più di 200 famiglie hanno perso la loro casa a Rafah negli ultimi due anni.

Rafah è l’ultimo e peggiore girone della Striscia di Gaza. Per arrivare alla cittadina, che sorge a vicino al confine egiziano, non si corre sulla strada principale (chiusa da anni perché passa attraverso l’insediamento di Morag, costruito nel ’72 con 150 abitanti); si percorre una strada che aggira l’ostacolo e lambisce l’aeroporto internazionale di Gaza, costruito con fondi UE, amputato della sua pista e del radar dagli aerei e dai buldozer israeliani circa due anni fa. Rafah è una città ferita dai bulldozer che hanno trasformato molte case, che sorgevano a ridosso del confine con l’Egitto, in sabbia.

Qui lo scontro è forte: gli israeliani tengono il controllo della frontiera dove tutti i giorni centinaia di persone si accalcano per uscire dalla prigione che ormai è diventata la Striscia di Gaza. I poliziotti palestinesi di frontiera fanno poco più che i portinai e il passaggio è deciso dall’ufficiale israeliano. Le frontiere sono sotto controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo, anche se quest’anno avrebbero dovuto passare sotto il totale controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

A Rafah sono molte le spie e gli informatori israeliani e anche i gruppi palestinesi armati sono molto attivi. Abitare a Rafah nei quartieri vicino alla frontiera significa anche alzarsi nel cuore della notte coi soldati che ti intimano lo sgombero immediato. Dopo, faticherai anche a capire dove sorgeva la tua casa.

La vita a Rafah vale poco; ne è la prova il fatto avvenuto il 17 ottobre scorso, quando un tank israeliano, in pieno giorno, in risposta ad una presunta provocazione palestinese, ha sparato almeno tre colpi di cannone uccidendo sette civili e ferendone almeno settanta. Tra le vittime non c’erano terroristi, ma c’era Shatma, di otto anni, che dormiva nel suo letto.

A Rafah ci sono i tunnel e anche questo ricorda la Sarajevo assediata. Anche qui, come là, dal tunnel passano armi, che vanno a finire nelle mani dei gruppi armati che stupidamente e con la disperazione negli occhi cercano di far guerra agli israeliani in una maniera che non potrà mai portare la libertà a questo popolo sofferente.

Ma non c’è solo disperazione in questo grande ghetto che è la Striscia di Gaza.

La speranza vuole dire il sorriso dei bambini, il volto riconoscente di una donna che vive in tenda dopo l’abbattimento della sua casa e che ti ringrazia perché tu le sei amico e ti invita a cena anche se è poco il cibo che ha a disposizione.

La speranza è un gruppo di persone che pensa che ci sia un modo diverso dall’andare in Israele e usare il proprio corpo come bomba per opporsi a questa ingiustizia quotidiana.

Questa gente lavora con la società civile e coi bambini. C’è chi, come Hussam, dirige un centro per aiutare i bambini con problemi di apprendimento e che crede che insegnare loro che hanno dei diritti e che c’è una seconda via sia la strada per portarli lontano dai gruppi fondamentalisti che predicano l’odio.

La speranza c’è in chi si sforza di non odiare, anche se tutti i giorni vede di Israele solo la faccia violenta e coloniale.

La speranza è una parola che qui in Medio Oriente la gente ha ormai paura a pronunciare: pace.