Le Maddalene d’Italia
Il mondo nascosto degli educandati femminili. Da La Voce della Campania, mensile di Napoli.
Difficilmente riusciremo a dimenticare i loro occhi. Il terrore degli innocenti che balena dietro gli sguardi. La vergogna di chi è senza colpa. La storia, quella raccontata nel film "Magdalene" del regista irlandese Peter Mullan, trionfatore all’ultimo festival di Venezia, non è meno gravida d’ingiustizia e crudeltà rispetto a quelle proposte negli anni da Ken Loach, che di Mullan è stato il maestro. Solo che questa volta la vicenda di Bernadette, Margaret, Rose e le altre, detenute nelle case di correzione per ragazze (esistite in Irlanda fino al 1996) ci toccano più da vicino.
Perché anche nella civilissima Italia la storia delle donne porta ancora nel profondo il marchio d’una società sessuofobica, lo spettro imposto del peccato originale, l’ombra di immotivati turbamenti, il ricordo di adolescenze vissute nel perbenismo delle comunità borghesi, nei salotti delle città, nelle parrocchie dei piccoli comuni, nei vicoli, nelle case. Siamo andati a cercare quel che resta delle nostre "magdalene". Quelle che portiamo ancora dentro di noi, nel ricordo. E quelle che tuttora incredibilmente vivono, nel nostro Paese, al limite di questa assurda condizione.
Il principio secondo cui occorreva vigilare sulla moralità del le giovani e soprattutto su quel "frutto proibito" capace di destabilizzare gli assetti sociali precostituiti, lo si ritrova tutto, ancora oggi, nel termine educandati femminili, fondati a inizio ‘800 con quei ‘santi’ scopi e tuttora presenti nel Paese in numero di sette. Il più importante, che è alle dipendenze dello Stato, ha sede a Napoli ed ospita attualmente 102 fanciulle. "Fino a non molto tempo fa - osserva Samuele Ciambriello, storico animatore di associazioni in favore di deboli e reclusi - gli educandati femminili italiani avevano, almeno sulla carta, compiti di quel tipo". Ma tuttora, insieme a un certo numero di giovani donne che vivono negli educandati perché provenienti da famiglie impossibilitate a mantenerle agli studi, questi istituti ospitano soprattutto le ragazze considerate dai genitori, o magari dal parroco del paese, troppo "vivaci" e bisognevoli, perciò, di regole particolarmente rigide. Nelle classi abbienti queste giovani vengono affidate in genere ad educandati privati, quasi sempre di natura religiosa o parareligiosa, ma comunque ubicati in austere residenze patrizie. E’ il caso, ad esempio, dell’ottocentesco Palazzo Archinto, sede del Collegio delle Fanciulle, nel cuore di Milano, o del convento che accoglie, a Palermo, l’Educandato Maria Adelaide.
Istituito con decreto napoleonico nel 1808, il Collegio delle Fanciulle dipende oggi dal ministero della Pubblica Istruzione, ma non rinuncia a quello che viene definito il suo "fine prioritario": "la formazione globale delle alunne, attraverso la trasmissione di valori e di ideali che possano dare pienezza di significato alla loro vita". Nobili obiettivi, naturalmente, soprattutto se la retta pagata dai genitori è consistente, non meno dei riguardi che le istitutrici - figura professionale tuttora presente negli educandati italiani - riservano alle giovani rampolle-bene.
Più difficile la vita quando in istituto ci si ritrova proprio per le drammatiche condizioni economiche o sociali della famiglia d’origine. Eloquente la testimonianza di A. F. , recentemente uscita da un educandato toscano cui afferiscono ragazze provenienti da tutta la penisola: "Ci sentivamo - scrive la giovane in una lettera confessione pubblicata su Internet - come prigioniere, incapaci di poter dare sfogo ai nostri desideri e invidiavamo le esterne che, dopo l’orario scolastico, potevano tornare a casa". Una giornata scandita da orari rigidi: alle 7,30 la sveglia, alle 8 colazione, alle 8,30 in classe, poi il pranzo e i compiti. "Alle 21,30 in punto dovevamo trovarci a letto perché alle 22 passavano le istitutrici a spegnere la luce". Ma non sempre si riusciva a dormire: "Quando il giro di controllo era terminato spesso ci mettevamo a parlare, sottovoce, perché altrimenti le istitutrici tornavano e si arrabbiavano moltissimo".
Giorni grigi. Come la divisa da indossare: "Quando ci portavano all’esterno, ad esempio a teatro, la divisa era obbligatoria e le persone che ci vedevano ci guardavano con occhi stupiti e noi provavamo un forte imbarazzo".
A. F. ce l’ha fatta. Pur raccontando di essersi sentita tante volte "in prigione" e confessando d’aver provato "un senso di abbandono enorme", oggi quel passato non le impedisce di condurre una vita serena. E’ andata peggio ad alcune sue compagne: "Ricordo con tristezza - scrive - il suicidio di un’amica che aveva molti problemi con la famiglia e non riusciva a parlarne". Ma non dimentica nemmeno "l’allontanamento dal collegio di una ragazza molto dolce che però faceva uso - così vociferavano - di stupefacenti". Storie che "hanno segnato per sempre il mio carattere".
Il problema dell’ascolto – dice Amelia Izzo, fondatrice di alcune tra le più importanti case famiglia della Campania - é al primo posto nell’incontro coi giovani. Ma richiede, oltre alle doti umane, anche una rigorosa preparazione professionale, che certo non si improvvisa". Proprio per questo Amelia, diventata ormai un punto di riferimento anche a livello nazionale sui temi educativi, sta attivando in collaborazione con l’università di Napoli corsi specifici per la formazione di operatori nei centri di accoglienza. Strutture che lei interpreta come autentici ponti tra le famiglie d’origine ed il giovane in difficoltà, tanto è vero che la più recente "casa" di Amelia - la quinta, che aprirà i battenti fra qualche settimana a Caianello, si chiamerà proprio CMF, ovvero Centro Minori e Famiglia. Una delle case ospita invece, già da tempo, le adolescenti che hanno subito abusi sessuali o altre violenze in famiglia.
A loro Amelia dedica un ascolto particolare: "Sono storie difficili, dure anche da ricordare. Abbiamo avuto il caso di una ragazza abusata che era stata 15 anni in un istituto religioso senza essere mai riuscita a confidare il suo dramma, ad aprirsi, proprio perché spesso mancavano figure in grado di stabilire una comunicazione vera, di ricostruire quel rapporto di fiducia con la vita che si é spezzato. E di saper ascoltare".
"Vuoi diventare una puttana come tua madre?". Era la frase che prima, in una diversa struttura, si sentiva ripetere spesso dalla suora un’altra giovane ospite della casa famiglia di Piedimonte, oggi perfettamente inserita nella comunità.
"Il problema degli istituti religiosi - osserva ancora Izzo - non é diverso da quelli laici ed attiene, come sempre, al livello della formazione. Non è detto, insomma, che per il solo fatto di essere suora una persona sia in grado di svolgere un compito così delicato come quello che richiede la ricostruzione delle lacerazioni nell’animo di una ragazza o, più in generale, di un minore".
Un parere pienamente condiviso anche da Pasquale Colella, docente di Diritto canonico all’università di Salerno e fondatore della rivista cattolica Il Tetto: "Film come quello di Mullan ci mostrano il frutto vero della sessuofobia presente in un certo mondo cristiano, e non solo cattolico". Un guasto che, secondo il professore, in qualche modo è a monte: "Le religiose venivano spesso mandate allo sbaraglio in ruoli che non erano preparate ad affrontare. Con l’aggravante di aver avuto, a loro volta, una formazione strettamente sessuofobica". E ricorda il caso di una monaca partenopea dell’istituto Santa Dorotea che, ancora negli anni ‘80, fu oggetto di reprimenda da parte degli ordini superiori "perché leggeva la Bibbia, comprese le pagine più sconvenienti".
Netto come sempre, Colella, anche sul quesito più spinoso. Sono cambiate, oggi, le suore? "Non tutte. Il tentativo di riaprire certi discorsi e fare la giusta autocritica é lungo e difficile, e le critiche rivolte al film di Mullan da parte del mondo cattolico lo dimostrano. Al contrario, "Magdalena" può essere un’occasione per riflettere sul passato, per dire a tutti che quei comportamenti aberranti erano frutto di una società capace solo di dividere l’universo femminile in sante o puttane. Perché questo non accada mai più".