Un pacifista a Ramallah
Dal nostro corrispondente in Palestina.
Aram Cunego, che i nostri lettori conoscono per i numerosi articoli scritti per QT quando era volontario in Chiapas, faceva parte del gruppo di pacifisti drammaticamente in azione, nei giorni scorsi, a Ramallah, durante l’infuriare della battaglia. Prima del suo rientro in Italia, Aram ci ha inviato via e-mail questa corrispondenza.
Conosciamo il numero dei morti, non ne conosciamo il nome, i tratti del volto, il colore degli occhi, la fluidità del sangue. Le telecamere impertinenti, i microfoni e le stilografiche nervose non comunicano abbastanza. Il linguaggio della politica si rivela insufficiente per riportare l’efferatezza della realtà.
La crisi in Medio Oriente è una crisi globale che nessuno può né potrà più ignorare. Parole come terrorismo, giustizia, diplomazia, pace hanno perso il loro significato sotto il tiro dei cecchini israeliani che mirano ai civili, alla stampa, alle delegazioni internazionali. Si sono svuotate di senso nei corpi dilaniati dei kamikaze palestinesi, negli israeliani che muoiono negli attentati suicidi, nei vuoti appelli della comunità internazionale che si appella alla genericità delle parole: soluzione politica, mediazione, equilibrio diplomatico.
Tutto questo si vive camminando per Gerusalemme, meravigliosa ed antichissima città, crocevia di popoli e religioni, luogo sacro per cristiani, musulmani ed ebrei. E si sente sulla pelle nelle strade di Ramallah, trasuda dall’asfalto violentemente solcato dai cingoli dei carri armati, si percepisce nel deserto delle strade e delle piazze.
Di fronte alla più sfrontata violazione dei diritti umani, la difficoltà più grossa è paradossalmente quella di prendere una posizione definita e chiara. Il tentativo disperato di essere obiettivi ed equilibrati nella valutazione dei fatti mostra una realtà distorta e malleabile, ad uso e consumo della propaganda e del prestigio da parte delle istituzioni competenti nazionali e sovranazionali. Ancora una volta, il giornalismo "super partes" e oggettivo dimostra la sua pochezza umana ed il suo cinismo.
Non ci siamo accontentati di quello che ci sentivamo dire e, a cose fatte, il bilancio psicologico e materiale mi e ci vede sconcertati e sconvolti, ma anche fieri e indomiti. Abbiamo disobbedito al meccanismo della guerra, assurta oggi a strumento supremo degli equilibri politici internazionali; abbiamo raggiunto Gerusalemme, siamo stati picchiati dalla polizia del governo di Ariel Sharon per aver gridato a mani alzate le nostre idee contro l’apartheid e l’occupazione e per aver esposto la bandiera palestinese; abbiamo percorso in drammatico silenzio le salite e le discese della martoriata Ramallah sotto il tiro dei cecchini, minacciati dai carri armati, controllati dagli elicotteri.
Martedì 2 aprile, dopo una notte passata in un hotel a Ramallah, quasi sprovvisti di cibo e cullati dal rombo dei carri armati, dai boati e dalle raffiche, abbiamo raggiunto uno degli ospedali palestinesi nati per l’assistenza alle vittime dell’Intifada. Percorriamo i 4 kilometri che separano l’albergo dalla struttura sanitaria a piedi e con le mani alzate, le bandiere bianche e i passaporti in mano. Per una strana coincidenza, c’è silenzio attorno a noi, interrotto solo da grida isolate di saluto e ringraziamento di alcuni palestinesi asserragliati nelle case a causa del coprifuoco.
Arrivati all’ospedale, subito un’urgenza. Una donna, appena dimessa dagli ambulatori, si dirige verso casa. Percorsi cento metri, due, tre, quattro colpi secchi e precisi. La donna si accascia, sanguina abbondantemente dal collo e dal ventre. I cecchini non sbagliano. Usciamo in una decina, vestiti di bianco, per proteggere gli infermieri. A trenta metri dalla donna, i cecchini riaprono il fuoco; non ce lo aspettavamo. Colpiscono i muri vicino a noi, un proiettile scalfisce lo spigolo di una casa ad un metro sopra la mia testa, le schegge mi arrivano addosso. Tremo e mastico insulti pesanti, ma devo stare calmo e mi riparo con circospezione dietro l’angolo. Pochi minuti dopo, riusciamo a recuperare la donna, e sull’asfalto battuto impietosamente da una pioggia torrenziale mista a grandine rimane soltanto la striscia del sangue colato dalla barella. Mi massaggio il braccio dove due giorni fa mi hanno prelevato il sangue per donarlo agli ospedali palestinesi che traboccano di civili feriti. Magari, il mio sangue si mescolerà a quello della donna ferita. Più tardi saprò che non è sopravvissuta. La guerra ha anche il colore dei suoi occhi vitrei.
Nel pomeriggio viene sospeso il coprifuoco per consentire la sepoltura di trenta cadaveri di civili palestinesi che non possono essere conservati in ospedale perché le celle freezer non funzionano. Vengono scavate due fosse comuni dopo aver divelto l’asfalto del parcheggio contiguo all’ospedale. Si raduna una gran quantità di gente che sembra spuntata dal nulla, dal silenzio. Pianti, slogan, rabbia. La stampa, impertinente e cinica, si fa largo a spintoni tra il dolore, la disperazione, l’odio. Ma i cecchini non hanno regole, perché la guerra non ha regole, e ricominciano a sparare vicino alla piccola folla. Aumentano le grida, al dolore torna a sommarsi il terrore. La guerra ha anche il suono stantio di quelle grida, di quegli spari.
Abbiamo messo la nostra vita, i nostri corpi a repentaglio della guerra al fianco della popolazione civile minacciata giorno per giorno, minuto per minuto da una morte ingiustificata, anonima e ingiusta. Abbiamo disobbedito con cocciutaggine ai divieti della guerra e alla diplomazia ufficiale al servizio dell’impero e degli interessi dei potenti. Abbiamo voluto disobbedire all’imposizione di non raggiungere i territori degi scontri e abbiamo dimostrato che è possibile ciò che il resto del mondo riteneva impossibile. Abbiamo detto no alla pace fondata sulla paura e l’oppressione, sull’imparzialità che vuole l’equidistanza dal giusto e dall’ingiusto, dall’oppresso e dall’oppressore.
Lo scenario della guerra globale permanente che si prospetta come cardine cruciale delle relazioni internazionali e che ha mostrato appieno il suo volto dopo gli eventi dell’11 settembre 2001 (ma se ne intuiva già il profilo nella guerra in Iraq così come in Kosovo e nei Balcani) non apre spazi per una alternativa pacifica interna al sistema vigente.
Per questo, infine, abbiamo fatto della disobbedienza sociale alla guerra la soggettività politica che combatte il governo criminale di Sharon e tutte le dittature e le forme di oppressione all’umanità, per il rispetto dei diritti umani, civili, politici, economici e culturali.
Gerusalemme, 3 aprile