Ulivo: il movimento e i partiti
Dal Palavobis alla manifestazione di Roma: la dura critica del movimento, le promesse delle burocrazie.
Il fatto è che una parte del nostro elettorato ritiene assurdo che Berlusconi sia arrivato ad essere capo del governo - ha detto Massimo D’Alema, commentando il grande successo dell’adunata del Palavobis.
Noi eravamo al Palavobis: e concordiamo, D’Alema ha perfettamente ragione. "A quelli di noi che vanno all’estero, tocca di essere guardati con compatimento o sospetto, come delle persone che, magari per colpa loro, hanno perso la libertà"- ricordava un accorato Furio Colombo.
Sì, siamo il paese delle banane. Guardavamo con compatimento quei paesi dell’America Latina o del Terzo Mondo che a premier eleggevano un magnate arraffone o un affarista contiguo alle mafie, o un proprietario di televisioni. "Sono cose da sottosviluppo, da carenze di cultura democratica" - dicevamo. E oggi abbiamo come premier un tale che ha ospitato per dieci anni in casa il plenipotenziario della mafia per gli affari al Nord; che può impunemente farsi campagna elettorale controllando, dall’opposizione, quattro reti televisive (cinque ora che è capo del governo); che usa quel potere mediatico per scatenare campagne contro i tribunali che lo devono processare, ecc ecc.
Come è stato possibile?
E tutto questo dopo cinque anni di governo del centro-sinistra, che non ha posto alcun argine democratico, alcuna regola civile per impedire questa colossale distorsione della democrazia. Ancora: come è stato possibile?
D’Alema e Fassino hanno a suo tempo teorizzato che queste domande non è opportuno porsele: "Lasciamoci alle spalle il passato!". Il congresso dei DS di Pesaro ha accuratamente evitato questi quesiti, anzi ha evitato proprio di parlare di Berlusconi, concentrandosi invece su interrogativi sofistici, con appassionate disquisizioni sul grado di socialdemocrazia raggiunto, raggiungibile, auspicabile. Antonio Di Pietro, a piazza Navona, quando ancora non aveva fiutato che l’aria cambiava e ambiva a trovarsi uno spazio tra le nomenklature, le assolveva: "Non rivanghiamo il passato: cosa fatta, capo ha", per poi rimproverare Moretti: "Così ci spariamo nei coglioni!".
Poi sono arrivati i girotondi, il Palavobis, il movimento, che ha detto no. Queste domande dobbiamo porcele.
Sono arrivate anche le risposte: "Tutto è iniziato con la Bicamerale - ha detto "Pancho" Pardi - Ed è proseguito con lo strappo della sostituzione di D’Alema a Prodi".
In sostanza, si è usata l’alleanza con Berlusconi come sponda per lotte interne al centro-sinistra. Forse è bene ricordare il feeling tra Massimo e Silvio (a suo tempo sbeffeggiato da Sabina Guzzanti) e prima ancora i costanti elogi dei media berlusconiani a Fausto Bertinotti, non comunista, bensì "simpatico" e "sempre coerente" ("Sarò impopolare, ma non mi importa, vanno ricordate le responsabilità di Rifondazione" - ha detto sempre Pardi).
Non stiamo parlando di errori, ma di colpe: di intelligenza con il nemico, di indifferenza per la democrazia, in nome di giochi tattici e ambizioni personali. Perché questo è stato il dato, ahimé, caratterizzante il ceto politico dell’Ulivo: esaurita le tensione positiva con il raggiungimento dei parametri di Maastricht, l’obiettivo primo (e talora unico) delle nomenklature è stato il gioco del potere. E in questa generale perdita di valori e di principi, anche il gioco di sponda con il potente avversario rientra tra le cose utili, e quindi ammesse.
Il tutto aggravato dalla frammentazione: "Nel centro-sinistra ci sono 16 differenti sigle – commentava a suo tempo Giuliano Amato - Ma non ci sono 16 differenti visioni della società, bensì 16 burocrazie da accontentare".
E ancora non basta. A nostro avviso c’è un ulteriore elemento che spiega la vittoria di Forza Italia. Tra i cui elettori ci sono sì i teledipendenti intortati da Sgarbi e Fede; i trafficoni e gli evasori fiscali che da cotanto capo si sentono tutelati; settori del mondo produttivo che pensano di meglio operare in un contesto ultraliberista e antisindacale. Ma c’è anche una parte di elettorato che il pericolo per la società l’ha individuato non in Forza Italia, bensì nel centro-sinistra. E non tanto per la favola dei comunisti cattivi, ma per la sensazione - magari suffragata da qualche esperienza - di trovarsi di fronte a un ceto politico che si ritiene inamovibile, incistato nelle istituzioni nelle quali tende a ossificarsi.
E questa è una tendenza reale, che avrebbe accelerato, in caso di vittoria dell’Ulivo, fino alla degenerazione. "La mia famiglia ha sempre votato PCI - mi diceva un’amica di Roma - Ma abbiamo visto come si sono comportati i dirigenti di sinistra negli ospedali, assolutamente indifferenti alla sanità, dediti solo ai loro giochi di poltrone. Così alle ultime elezioni non siamo andati a votare".
Una perdita di valori devastante, un comportamento diffuso, del quale le ciniche corti di cui si erano contornati i massimi dirigenti, dai Chicco Testa ai D’Alema in barca, erano solo la parte più eclatante.
Dove sarebbe approdato questo ceto, dopo altri cinque anni di potere?
Ecco quindi il movimento, e la contestazione dei vertici dell’Ulivo. Una contestazione civile e positiva: "Noi non bastiamo, occorrono anche dei seri professionisti della politica - ha riconosciuto una delle organizzatrici del girotondo di Milano - Sta a loro capire, interpretare, tradurre in iniziative politiche le istanze che vengono dal nostro comune sentire".
I papaveri prima hanno minimizzato o addirittura irriso ("Non si festeggiano le manette" - ha sbeffeggiato D’Alema alla vigilia della manifestazione pro Mani Pulite al Palavobis). Poi si sono dati una regolata: in Parlamento hanno finalmente fatto un’opposizione vera (il deprecato "muro contro muro"!) se non altro sul conflitto d’interessi; hanno organizzato la manifestazione di piazza San Giovanni, dove hanno potuto verificare la straordinaria forza del movimento; hanno promesso una serie di snellimenti al loro interno, a partire dai gruppi parlamentari unici; D’Alema ha annunciato un suo temporaneo esilio americano.
Non basterà. Infatti, dopo due giorni si sono subito rimangiata la promessa dei gruppi unici (i partitini e le correnti temono di svanire).
Il movimento, se ne avrà la forza, dovrà durare e puntare a un ricambio radicale, delle persone, delle strutture, della cultura.
Spiace vedere come in questa temperie, Trento sia quasi assente; a partire dalla sua Università, un tempo all’avanguardia nel paese, oggi segnata dalle tante contiguità al potere e saziata dalle troppe ricche consulenze.
Ma su questo torneremo prossimamente.