“Vajont” di Renzo Martinelli
Per un giornale quindicinale come QT si fa problematico riuscire ad essere tempestivi nella recensione dei film proiettati, viste l’incertezza e l’imprevedibilità della programmazione nella sale cinematografiche e specie della loro tenuta, che può durare qualche giorno o protrarsi indefinitamente: colpa dei capricci del pubblico, insondabile nei suoi gusti, come ci viene spiegato, ma anche per motivi di distribuzione, sempre misteriosi, e, più concretamente, di incassi.
Un esempio ne è il film "Vajont", mentre scriviamo ancora in cartellone fin dal 18 ottobre, che, trattato severamente da critiche aspre e sbrigative, è invece gradito e premiato dal pubblico, che continua ad affluire numeroso. La foga della critica nel metterne in evidenza i difetti, spesso anche pregiudiziali, eccesso di spettacolarità, sciattezza della regia, modi del cinema catastrofico, ne ha però oscurato i meriti, che pur ci sono. Cercheremo qui di riconoscere questi ultimi.
Primo merito del regista è di aver portato sullo schermo un fatto così emblematico come la tragedia del Vajont, accertato, con le sue parole, "che l’Italia è piena di Vajont, pronti a esplodere se non ci sarà un’attenzione ecologica e civile". Il 9 ottobre ‘63, alle 22.30, dal Monte Toc, dietro la diga appena costruita, 260 milioni di metri cubi di massi si staccano e precipitano nel lago artificiale, da cui un’onda alta 250 metri, 50 milioni di metri cubi d’acqua, si solleva e si abbatte sulla valle sottostante, spazzando via in pochi minuti i paesi e 2000 persone.
Questo il fatto. Il film è la storia di come si è arrivati all’immane tragedia: non una fatalità o una crudeltà della natura, ma una catastrofe annunciata, quattro anni, dal ‘59 al ‘63, in cui la voce della Natura, che mandava segnali premonitori, non è stata ascoltata da politici e tecnici sordi e ostinati a perseguire il loro progetto, che odorava di morte. Quattro anni di tergiversazioni affaristiche e politiche, di appalti, di verifiche e controverifiche, addirittura falsificazioni delle perizie sulla pericolosità del monte Toc, tagliato da una crepa in continua estensione (Toc nel dialetto locale significa pezzo, monte che va a pezzi), che minacciava in crescendo di franare nel bacino sotto se i lavori non venivano fermati. Che invece proseguirono, in sprezzo ad ogni monito per il rischio sempre più preoccupante e dimostrato, rischio pagato infatti con le 2000 vite umane, che potevano essere salvate. La non fatalità dell’evento, frutto quindi di cinismo, corruzione, brama di denaro, irresponsabilità verso vite ignare e per lo più fiduciose, è testimoniata nel libro "Sulla pelle viva" di Tina Merlin (interpretata con amore e immedesimazione dalla brava Laura Morante), la giornalista che denunciò tutto in anticipo, inascoltata e persino processata per questi suoi articoli, a cui si ispira fedelmente la sceneggiatura del film.
Fra i punti a favore, da ascrivere pure la capacità del regista di presentare e delineare ambiente e personaggi, sia i detentori di denaro e potere, fautori del progresso nella valle ma soprattutto del proprio interesse, sia i popolani, ancora dentro una cultura rurale e ligi ai suoi antichi valori, ingenui e attenti alla voce della loro montagna, ma anche attratti dai benefìci del progresso decantato con rassicuranti parole da persone alla cui "sapienza" e autorità portavano ancora rispetto, e di cui, in fondo, si fidavano. Attraverso la descrizione, a montaggio alternato, della vita quotidiana della gente umile, divisa tra rispettoso ascolto della natura e lusingato ascolto delle promesse allettanti, e dell’iter di consapevole cinismo di gente di potere, che non si è fermata nella sua sfida nemmeno davanti all’evidenza, bene viene resa l’idea della violenza con cui il progresso industriale del boom dei primi anni ‘60 si è imposto, a tutti i costi e con tutti i mezzi, sul mondo agricolo arcaico, non in grado di difendersi e di fermare eccessi e superficialità.
In questo scenario, a toccare l’emotività dello spettatore si inserisce una delicata storia privata, un amore nato e cresciuto intenso nel contesto inquieto che ospitava però tutti i normali eventi della vita, e spezzato nel momento più dolce dell’attesa di un figlio, usata come cornice della cronaca racchiusa tra l’inquadratura iniziale e la finale con il marito rimasto solo che piange sul tumulo di lei, miracolosamente sopravvissuto, ma spezzato dentro senza più speranza.
Nonostante la linea narrativa che percorre la strada della genesi del disastro, i modi della rappresentazione non sono quelli tipici documentari del film di denuncia civile, ma si avvalgono della spettacolarità e del richiamo emotivo con l’uso di effetti speciali, anzi, come spiega il regista, di effetti visivi: "Ho girato il Vajont, non l’invasione su Marte, quindi ho usato quelli che gli americani chiamano ‘visual effects’...sono 270 le inquadrature con un forte intervento digitale.." (pare che questo sia il film italiano con più effetti della storia del nostro cinema). Del resto l’evento, senza precedenti a quel tempo, si prestava alla grandiosità della messa in scena, specie nel finale quando, abbandonati il geometra e un operaio ad affrontare ignari sulla diga l’ormai inevitabile flagello da capi che si sono messi in salvo, la gigantesca massa d’acqua si solleva, si schianta, spazza via tutto, lascia un deserto di fango nella valle prima boschiva.
La spettacolarità non impedisce comunque una tenace, precisa ricostruzione dell’accaduto nell’ambiente umano, entrando nelle osterie, nelle case, dove si sta guardando la partita o dove si svolgono le consuete occupazioni serali, sostando sulle strade, dove i più allertati sentono qualche anomalia nell’aria e scrutano irrequieti il Monte Toc e la diga. Tutti travolti dall’inferno di acqua e di fango.