Passeggiate a Venezia
La mostra di Balthus e un incontro inatteso.
Vent’anni or sono Venezia dedicava a Balthus una straordinaria mostra nella sala della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista nell’ambito della 39° Biennale. Questa volta tocca a Palazzo Grassi (fino al 6 gennaio) l’onore di far conoscere al grande pubblico uno dei geni occulti del secolo. La sua misura dell’arte sembra collocarsi fuori dal secolo delle avanguardie, "di rivoluzione continua sotto il segno della ricerca accanita di una risoluzione, e nello stesso tempo della elusione di ogni risoluzione". Quando Luigi Carluccio parla del secolo appena trascorso usa l’espressione di "arte di corrente", un’arte alla ricerca del senso, della direzione, della velocità della fiumana, ma Balthus è uno di questi "elementi resistenti... che concede pochissimo all’incanto dell’improvvisazione".
Metodo, rigore di linguaggio, chiarezza di idee sono parole usate correntemente dai critici: confesso di aver letto tanti articoli e interventi critici sul grande artista, ma nessuno di questi conosce l’intensità delle pagine di Piero Bigongiari tratte dal suo splendido libro "Dal barocco all’informale", edito da Cappelli. Si parla dell’influsso di Piero della Francesca nel rapporto tra figura e l’aria che la circonda, dello stato di ambiguità e di oscura minaccia psichica tra seduzione inconscia e purezza primaria dell’essere, di "come il conscio è legato all’inconscio, e la tentazione è rafforzata dal divieto... (di) figure che si atteggiano in una sorta di obliosa, edenica memoria di un presente, felicità inconsapevole da recitare, di un senso obliato tanto della colpa quanto dell’innocenza", ma soprattutto dell’incombenza delle figure e degli ambienti su chi guarda, nella memoria di esiti straordinari della pittura fiorentina, primi tra tutti Giotto e Masaccio.
Quadri e disegni creati con una pazienza certosina alla ricerca di una posa che li ricrei, di una alterità che valga per sempre, come i miti che ritornano utili per spiegare l’intima conoscenza dell’uomo, "masse psico-plastiche campeggianti in luogo grigio che si isolano nei grandi spazi stupiti come elementi silenziosi, creature in posa a sfiorare l’innocenza già peccaminosa del proprio crescere", un sogno che non risveglia situazioni passate, ma gonfio di avvenire.
Duecento opere circa sono una follia; si ha voglia di uscire e non vedere più nulla, ma nel girovagare senza meta in una città come Venezia si fanno comunque strani incontri.
All’interno della galleria in fondo a Campo Santo Stefano un dipinto colpisce l’attenzione del passante, da lontano sembrava di vedere un’opera di Carlo Mattioli e invece opera di un brissinese che vive e lavora a Venezia, Franco Cimitan. Era uno strano fiore dipinto su tela fissata su tavola, con un passaggio in "barrique", verrebbe da dire in linguaggio enologico), no, un passaggio di cera d’api che dà una luce quasi metafisica alle sue lagune, ai notturni e alla sua flora immersi in un’atmosfera di meditazione e di oblio del tempo (mostra aperta fino al 5 dicembre).