Mozart e la fedeltà
Non si deve avere fiducia nella costanza delle donne, ma questo non è in fondo un male: non è meglio forse che esse siano allegre e generose nell’offrire il loro amore e che lo distribuiscano equamente a più amanti, piuttosto che si inacidiscano nella solitudine e nell’attesa? Non è meglio riconoscerle anche nei loro difetti piuttosto che immaginarle come in realtà non possono essere? In questo breve assunto sta il nucleo di "Così fan tutte", dramma giocoso nato dalla collaborazione del grande librettista Lorenzo da Ponte col meraviglioso Mozart. Difficile definirlo altrimenti il genio di Salisburgo, soprattutto dopo aver assistito a questa rappresentazione di "Così fan tutte".
Fin dalle battute iniziali dell’ouverture il tono spumeggiante della musica coinvolge in un gioco divertito, all’interno del quale i due amanti (Guglielmo e Ferrando) si fanno trascinare dal pratico Don Alfonso in una scommessa che non può essere vincente. Seguendo le indicazioni dell’amico, prima fingono di partire per la guerra e poi tornano sotto mentite spoglie dalle due nobildonne ferraresi che corteggiano per metterne alla prova la fedeltà. Guglielmo cercherà di conquistare l’amante di Ferrando, Dorabella, mentre quest’ultimo si dedicherà alla di lei sorella, Fiordiligi, "bell’idol" di Gulglielmo.
L’opera ha una genesi alquanto misteriosa, mancando sia nelle biografie di Mozart che in quelle di Da Ponte una indicazione esauriente sulla nascita di questa terza collaborazione fra i due. Fu giudicata immorale ed offensiva nei confronti delle donne e di conseguenza non fu allestita con la stessa frequenza di un’opera ben più seria come "La clemenza di Tito". Fu solo all’inizio del Novecento, grazie al lavoro di riscoperta di autori e direttori d’orchestra come Mahler e Strauss, che "Così fan tutte o La scuola delle amanti" ritornò in auge in versioni che tentavano una certa fedeltà filologica. Purtroppo spesso si operarono però dei tagli alquanto indiscriminati, giustificati solo dall’estrema lunghezza del libretto; una pratica tuttora comune, non però nell’allestimento di Mario Martone, per fortuna. Quasi tre ore di recita, nelle quali i sei personaggi principali erano praticamente sempre in scena, un’impresa notevole.
Le molte belle arie erano inframmezzate dai soliti recitativi con accompagnamento di clavicembalo, decisamente molto retrò, caratteristici del melodramma settecentesco; difficile annoiarsi però, nonostante la lunghezza: non risultava infatti mai fuor di luogo o non necessario il dialogo, sia recitato che cantato.
All’inizio dello spettacolo una voce annunciava l’indisposizione di Yolanda Auyanet, che non ha voluto però rinunciare ad esibirsi. Se la Auyanet canta così quando sta male, immaginiamo che sentirla in piena forma debba essere un’esperienza celestiale. Laura Polverelli è stata una grandiosa Dorabella. Espressiva, magnifica attrice, senza un calo o un’incertezza nella voce nemmeno se giaceva riversa sul letto o quando correva da una parte all’altra del palco. Sorprendente anche Andrea Concetti nella parte di Don Alfonso, mobile, intenso eppure mordace e ironico e sempre in movimento. Nicola Ulivieri a una bella voce unisce una mimica varia e accattivante, mentre Mark Milhofer ci è sembrato a tratti un po’ fuori tono. Gemma Bertagnolli nella parte di Despina, la cameriera intrigante, ha certamente fatto un buon lavoro di caratterizzazione del personaggio, dimostrando delle esuberanti doti di attrice, ma purtroppo non altrettanto convincente è stata la sua performance come cantante. Tanto che nella parte del dottore nel primo atto o in quella del notaio nel secondo, quando era costretta a notevoli sforzi vocali perché per aumentare l’effetto di camuffamento cantava modificando toni e altezze, risultava molto più gradevole ascoltarla. Plauso anche a De Rosa che ha seguito la messinscena, a Vera Marzot per i costumi e a Sergio Tramonti per le scene.
Questo frizzante saggio sull’infedeltà delle donne ha dimostrato come invece la fedeltà dei registi sia un valore da ricercare e perseguire, dal momento che l’inventiva può trovare ampio sfogo in un creativo utilizzo della recitazione e delle luci, senza avventurarsi in modernismi mortificanti, scenografie improbabili e riletture incomprensibili.