La montagna e la legge
Andare in montagna è un’esperienza gioiosa, ma avvolta in una fitta rete di norme giuridiche, prescrizioni e divieti.
Andare in montagna è sentita come un’attività ludica e libera da vincoli. Salire un monte, vagabondare in un bosco, seguire sentieri ignoti, arrampicare su una parete, attraversare un ghiacciaio sono esperienze vissute con tranquilla gioia, oppure con entusiasmo o con stupore, ma sempre con un profondo senso di libertà. Finalmente lontani dalle città, dal traffico, dal rumore "l’andar per monti" è avvertito come un ritorno alla natura, alla vita primitiva, al silenzio: il riflesso emotivo comune a tutti gli alpinisti è quello della liberazione, che spesso si esprime anche fisicamente con un respiro più dilatato e un senso di pace interiore.
La letteratura europea ha pagine di altissimo livello che descrivono questo stato d’animo. Non posso non citare quelle indimenticabili di Thomas Mann che raccontano il vagabondare felice e trasognato di Giovanni Castorp sulle montagne di Davos durante una nevicata. Se volessi sintetizzare potrei dire: montagna uguale libertà. Infatti, almeno fino a poco tempo fa, nessun alpinista poteva immaginare che la sua attività avesse a che fare con la legge. Ora invece è sempre più diffusa la consapevolezza che le vie dei monti si intrecciano strettamente con quelle del diritto. La cosa è evidente sulle piste di sci dove il traffico e il pericolo, anche per l’invenzione di nuovi mezzi tecnici, aumentano di stagione in stagione.
Anche l’alpinista solitario, che taglia un pendio di neve provocando una valanga, può essere causa di pericolo e fonte di conseguenze giuridiche.
L’alpinismo dunque è avvolto nella rete del diritto, in ogni momento, in ogni gesto anche il più banale. Per esempio, camminare appaiati per sentieri scoscesi è molto imprudente e può dar luogo a responsabilità anche penale. Basta inciampare e urtare il compagno facendolo cadere per il pendio; oppure voltarsi e toccare di lato l’amico di gita mentre è in equilibrio instabile e farlo cadere nel vuoto. E’ sufficiente un nonnulla a provocare un incidente, che può finire in una semplice lussazione, in una frattura, oppure nella tragedia della morte. L’anno prossimo, il 2002, sarà dedicato alla montagna in tutto il mondo, ed è bene incominciare a parlare di queste cose a livello divulgativo affinché l’alpinismo, che è diventato un fenomeno di massa, anziché lieta avventura non diventi causa di sciagure.
Parlo per esperienza personale. Nei miei verdi anni e fino a poco tempo fa ho raggiunto la vetta di montagne famose in Italia e all’estero (in Africa, in Asia e in America latina) osservando sempre le regole tecniche imparate come istruttore del CAI ma senza mai pensare ai doveri giuridici impliciti nell’alpinismo. Quando sul Ruwenzori alla mia cordata capitò di salvare, per puro caso, un’altra cordata di amici che stava scivolando in un crepaccio, fu una festa, naturalmente, e un affettuoso abbracciarsi per lo scampato pericolo, ma a nessuno venne in mente che se si fosse verificata una disgrazia oltre al dolore per la sorte dei compagni ci sarebbe stato il seguito di un’istruttoria e di un processo penale per lesioni o per omicidio colposo. Ora non è più così, grazie anche all’attività didattica svolta dalle scuole centrali e sezionali di alpinismo del CAI, e all’interesse di alcuni giuristi che hanno incominciato a occuparsi della della materia su riviste specializzate.
Questa nuova consapevolezza non rovina il gusto dell’avventura né diminuisce il senso di gioiosa liberazione tipica dell’alpinismo. Non c’è da meravigliarsi: forse che conoscere e applicare il codice della strada diminuisce il piacere della guida?
All’alpinismo ‘eroico’ e un poco sconsiderato si va oggi sostituendo una concezione diversa. Oggi quando organizziamo un’ascensione o una gita di sci alpinismo sappiamo, anche senza dircelo, che in montagna si va per divertirsi e non per morire.
Così consultiamo il barometro, ascoltiamo il bollettino nivometereologico, controlliamo il materiale, scegliamo l’itinerario più prudente. Ciò è giuridicamente obbligatorio quando si guidano giovani allievi. E’ bene sapere che in base all’art.2330 CC l’istruttore del CAI, ma anche solo il più esperto, svolge lavoro autonomo a contenuto tecnico anche se la prestazione è saltuaria, priva di compenso e volontaria. Quindi l’istruttore risponde di eventuali incidenti se non ha usato l’assicurazione prescritta, se ha dimenticato di far indossare il casco, se ha sbagliato un nodo, oppure si è distratto in un passaggio difficile. Anche l’allievo ha le sua responsabilità, e l’istruttore va esente da colpa se l’allievo non osserva le prescrizioni, si allontana dall’itinerario prestabilito, dimentica il "bip" (ARVA) o usa male l’attrezzatura necessaria.
Si discute se l’alpinismo sia di per sé attività pericolosa o no. Io sono per la prima ipotesi, prevista dall’art. 2050 CC, per cui vi è la presunzione di responsabilità e l’inversione dell’onere della prova (per cavarsela bisogna dimostrare di aver fatto il possibile per evitare il fatto). Comunque sia,"l’andar per monti" necessita di una adeguata preparazione ed educazione. Aiuterebbe anche un atteggiamento più responsabile della stampa e della TV, le quali non dovrebbero mai parlare, in occasione di un incidente mortale o di una valanga funesta, di "montagna assassina". L’errore all’origine della sciagura è quasi sempre umano. Chi fa alpinismo deve saper rinunciare, se la situazione lo consiglia, anche a 10 metri dalla vetta.
Andare in montagna è certamente una esperienza gioiosa e liberatoria ma, per la inevitabile unione dei contrari, è avvolta in una rete fitta di norme giuridiche, prescrizioni e divieti. E’ utile esserne consapevoli.