Pearl Harbor
Gioco pirotecnico di immagini, grandiosi effetti speciali; il resto è solo esteriorità, dai sentimenti superficiali alla troppa retorica.
Dopo l’impegno della finita stagione, una pausa commerciale sugli schermi: il maggiore richiamo viene ora dall’ultimo film di guerra americano, prodotto dalla Disney, pubblicizzato a suon battente già dalla sua anteprima, record di spettacolarità essa stessa, a bordo di una grandiosa portaerei a Honolulu, e costruito per divertire e strabiliare lo spettatore con i suoi effetti speciali e digitali, invero straordinari, adottati per le vertiginose sequenze del proditorio bombardamento giapponese sulla base americana alle Haway, il 7 dicembre 1941.
Un breve prologo porta al 1923, quando i due protagonisti, Rafe e Danny, sono bambini coraggiosi, attratti dagli aerei e dai voli e legati da forte amicizia e affetto. Li ritroviamo nel 1941, giovani aviatori, sempre più amici e coraggiosi. Una relazione d’amore nasce tra Rafe e Evelyn, bella infermiera dell’esercito, complicata dalla partenza di lui, volontario in una missione nell’Inghilterra in guerra, e troncata dalla brusca notizia, portata da Danny a Evelyn, di servizio a Pearl Harbor, che il suo aereo, abbattuto, si è inabissato in mare. Disperati entrambi per la perdita, durante il periodo di lutto che segue essi cercano conforto l’uno nell’altro, col prevedibile esito di un amore appassionato e bambino in viaggio. Ma Rafe appare d’improvviso, ad innescare il melodramma poco prima dell’attacco nipponico a sorpresa a Pearl Harbor.
Sono trascorsi 90 minuti di film, ne seguono 40 del terribile bombardamento alla base navale, poi la reazione a Washington, la ripresa, dopo l’immediata prostrazione, con l’attacco aereo a Tokio in condizioni estreme e l’entrata in guerra degli USA: il tremendo colpo subito diviene stimolo per i soldati, "la generazione più grande", a dare se stessi per "l’ultima guerra giusta". Sarà la guerra a risolvere, in modo eroico e generoso, anche il triangolo amoroso che il caso aveva favorito.
Ancora una volta un gioco pirotecnico di immagini, della durata di 180’, in cui gli amori e le bombe si contendono il campo, per mettere in scena un atto dell’epopea dell’America, che racconta se stessa e il sentimento che ha di sé, con spreco di retorica e di orgogliosa autostima, dilatando il senso dei fatti particolari e individuali a universali, secondo un modo epico di rappresentazione. L’inconfutabile abilità tecnica nella costruzione di immagini dall’impatto adrenalinico, non sopperisce alla banalizzazione da cartoon, all’artificiosità, alla superficialità, sorrette da un uso puramente spettacolare del colore e del montaggio. Tutto resta esteriore, il dolore, il pericolo, l’amore, lo spavento: succedono i fatti, si vedono i sentimenti, in modo molto conciso, pur nella lunghezza del film che racconta storia e vite per cartelloni dai tratti stereotipi e seriali e non per elementi espressivi, immagini e parole, significanti di quanto narrato; ma mai si sente e si vive il dramma umano, assente è l’autentico svolgersi della tragedia intima e collettiva.
L’attrazione si ferma allo sguardo, non riesce ad agganciare l’emozione, se non quella estemporanea. Forse perché ad una regia forte e personale si è sostituita la produzione con le richieste e le regole del blockbuster, cioè un film che mette in fila le masse davanti a migliaia di sale, che è un grande business, che vuole una sceneggiatura distillabile per slogans e una trama contenibile in una frase. Una di queste regole, tipica del cinema postmoderno, è la commistione dei generi, qui il melodramma, la commedia, il bellico, il catastrofico, l’ospedaliero, senza lasciare spazio ad alcuna riflessione, dubbiosa pure la veridicità storica; e poi le numerose citazioni da altri film, percorrendo i decenni dal dopoguerra in poi, financo ai più recenti di Spielberg e Cameron.
Dopo tre ore di visione concitata, resta il senso, ai nostri occhi un po’ ridicolo ma anche pericoloso, di un osanna magniloquente a vecchi valori, oggi desueti ed estranei specie ai giovani: l’amor di patria, la grandezza di sentire, l’eroismo individuale e nazionale, la giusta causa e la giusta guerra, per cui vale il sacrificio del singolo, espressi con la massima convinzione e nobiltà, che restano però enunciati solo declamatori ed eccitanti, fasulli perché non sostanziati di significato e contenuto con riscontri reali. Per contrasto, ricordiamo il film di guerra di Terence Malick "La sottile linea rossa" (‘99), costruito sulla meditazione filosofica, sul dilemma e sull’umanità, sulla problematizzazione di tutto, in cui le immagini sanno raccontare il dolore e le sorti dei corpi e delle anime degli uomini in guerra, e la tensione a indagare negli insondabili perché.
Ma, al di là di una valutazione critica, che positiva non può essere, per questo film e altri di simile stile che attraggono gli spettatori di culture le più diverse, proprio con la forza di immagini emotive e semplificate, possono essere interessanti le parole di Vittorio Zucconi, esperto conoscitore della cultura americana: "L’America non ha paura di raccontarsi in grande perché non ha mai sofferto il prezzo terribile della retorica divenuta storia vera sui balconi e dalle piazze fatali d’Europa. Noi abbiamo vissuto e pagato le catastrofi della magniloquenza, delle aquile, delle croci celtiche, delle falci e dei fasci littori. L’America mai e dunque non ne ha rimorsi né pudori. Per questo gli spettatori di tutto il mondo possono abbandonarsi alla rappresentazione senza paura, perché sanno che dietro quelle trombonate non ci sono Leni Riefenstahl o la Mosfilm, ma c’è soltanto qualcuno che ci chiede quindicimila lire per un biglietto..."