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QT n. 9, 5 maggio 2001 Monitor

Il nemico alle porte

L’ultimo film di Annaud, presente al Festival di Berlino, e trattato un po’ sbrigativamente, uscito nei giorni scorsi sugli schermi, riporta al tempo della II guerra mondiale, il ‘42-’43 nella Stalingrado accerchiata dall’esercito tedesco, già distrutta dai bombardamenti aerei e senza tregua ancora colpita sulle macerie e sugli uomini, soldati e civili, che vi stanno rintanati: l’uno esercito ostinato per entrare nella città simbolo della potenza antagonista, benché devastata, l’altro perché è la sua città, dal nome del grande Stalin, la cui difesa e tenuta è la tenuta di tutta l’Unione.

Questo film però mantiene la storia e la guerra, di cui pur rappresenta la temperie fatta di bombe, squadriglie aeree, morte e desolazione, solo sullo sfondo, lasciato il primo piano alle vicende degli uomini, vissute estremamente nelle situazioni estreme della guerra, dove si ritrovano i tòpoi codificati del nazista perfido, dell’eroe semplice e splendido, della storia d’amore a lieto fine, che fanno sfiorare la retorica e l’ovvietà. Lo scontro fra i due eserciti nemici, che resta dunque sullo sfondo, diventa sulla scena scontro fra due uomini, due tiratori di prima scelta che si braccano e che fanno della loro attitudine un’arte, che allerta all’apice i sensi, e che ha però come posta la vita. Concentrato nelle due persone, si vive il senso della linea inconsistente di separazione tra vita e morte, che è sì quella della guerra, di ogni guerra, ma che in questa lotta divenuta individuale mette in competizione, con il caso, l’abilità, l’astuzia, l’autocontrollo.

Visivamente ben costruita la città nella fatiscenza e terribilità delle condizioni d’assedio, bombardata sui palazzi cadenti e sulle rovine dove si ammucchiano i morti, essa è però come statica e dipinta, non vi scorre la storia, benché le bombe spaventino, benché la gente soffra e muoia. L’epos di quella grande battaglia non passa per quelle immagini, epiche diventano invece le storie private, di uomini, donne, bambini, attraverso le quali i sentimenti, le passioni, le relazioni animano il tempo disperato e tetro, dove la scintilla di speranza e tensione a non cedere è accesa dalla bravura di due tiratori a tenersi in scacco, in un gioco di pazienza e vigile attesa condotto sul filo di morte, che tiene sospesi il quartier generale russo e il tedesco.

Rispetto alla struttura, il film si compone di un incipit bello e promettente, cui non corrisponde il seguito nella densa maestosità, dove un bambino e un vecchio sono appostati in una distesa di neve nell’attesa di un lupo da colpire, Vassili che apprende dal nonno a mirare e a sparare, e della lunga sequenza dello sbarco delle truppe dal Volga nel porto di Stalingrado, che ricorda vagamente l’inizio del film di Spielberg nella carneficina di uomini sotto l’infuocato tiro tedesco e nello strazio fisico dei soldati, cui segue la parte portante, che cambia registro: da qui si procede infatti col racconto di storie private, dove la tragedia collettiva prende corpo nella tragica situazione dei singoli, riscontrabile anche nell’alternanza di piani d’insieme, di più parco uso, per le scene di massa e battaglie, spettacolari, e di primi e primissimi piani, prevalenti, espressivi degli stati d’animo, a dire che si tratta di un film di guerra dove il vissuto psicologico ha diritto di coesistere con i fatti bellico-storici.

Il filo conduttore è la tenzone fra il russo Vassili e il tedesco Koenig, che si fronteggiano in agguato, l’occhio puntato ossessivamente sul mirino in un duello di sguardi da cui dipende la vita o la morte, quasi delle telecamere viventi, che devono sapere ogni dettaglio del campo inquadrato; come dice il regista, "una metafora sul fare cinema... un po’ come "L’ occhio che uccide" (film di Michael Powell, ‘60), solo che qui può, allo stesso tempo, essere ucciso". In questa sfida immobile, la guerra diviene una questione personale tra i due, che, soli tra le macerie, si aspettano, si spiano, si sparano. Su questa linea principale si innestano altre storie: l’amore tra Vassili e Tania, la ragazza ebrea che combatte vicino a lui, in prima linea, che sarà ferita e dispersa ma infine da lui ritrovata, e la gelosia di Danilov, che pure ama Tania che gli ha preferito Vassili, il commissario politico creatore dell’operazione cecchini, al fine propagandistico di sollevare il morale a terra dei soldati; e così, anche il rapporto tra Vassili e Danilov, di amicizia, stima, politico e volto ad un utile collettivo, diviene poi una questione intima. Del resto, persino il personaggio Krusciov, stratega della battaglia inviato da Stalin, appare, più che nelle vesti ufficiali di politico, nell’umanità del suo carattere, alla mano, plebeo, rude e un po’sprezzante. C’è poi la triste storia di Sacha, bambino amico e ammiratore di Vassili, incalzato da Danilov a fare la doppia spia tra i due cecchini, cosa che gli costerà, vittima innocente e inconsapevole del pericoloso gioco, funestamente cara.

Il film è tratto dal romanzo "Enemy at the gates" di William Craig, costruito su centinaia di interviste a russi e tedeschi sopravvissuti agli orrori di Stalingrado. Gli episodi e tutti i personaggi sono storici, il solo fittizio è Danilos, che incarna comunque il ruolo dei commissari politici dell’epoca.

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