Mons. Gottardi, il vescovo e l’uomo
Non è facile per me scrivere oggi con distacco emotivo un contributo di valutazione sul vescovo Gottardi e sul suo lungo pontificato alla guida della diocesi di Trento.
E non tanto in ossequio all’adagio antico in base al quale dei morti si deve solo parlar bene, quanto piuttosto perché si tratta di una persona con la quale chi scrive ha avuto una frequentazione umana ricca e importante, anche se non sempre di pacifica condivisione, in cui il rispetto reciproco, la stima e l’affetto per una persona cara, non sono mai venuti meno. Ed anche la sua ultima benedizione che mi ha regalato, dopo avermi faticosamente messo a fuoco con quello "sguardo errante" che ne segnava inesorabilmente la fase terminale della vita nell’ultima visita che gli ho fatto all’ospedale poche settimane prima che morisse, la conservo con memoria d’affetto e di condivisa speranza nella risurrezione.
Detto questo, bisogna aggiungere che gli anni passati nelle vesti di vescovo "emerito" hanno contribuito a liberarlo da quell’incrostazione di ruolo a cui mons. Gottardi era portato a pagare costi rilevanti. E’ vero infatti che anche il potere clericale con la sua aura di sacralità si omologa quasi per automatismo alle dinamiche del potere in generale, che tende a soffocare, sotto la coltre del ruolo ricoperto, l’umanità della persona, per cui è raro trovare tra i potenti degli "uomini umani" - come li chiamava Pasolini. E l’umanità di monsignor Gottardi ha avuto modo di manifestarsi negli ultimi lunghi anni della sua vita di "emerito" in modo più libero e genuino di quanto non lo avesse potuto fare negli anni di governo della diocesi. E la testimonianza dei giovani della comunità di San Nicolò, così come quella del reparto di geriatria dell’ospedale tradotta in preghiera nella liturgia funebre, ne hanno dato splendida dimostrazione. (Non ha mai voluto una stanza riservata per sé nei suoi reiterati ricoveri, ha sempre voluto condividere con altri la degenza e la debolezza progressiva della sua vecchiaia con relativi inconvenienti).
Qualcheduno, in termini di valutazione complessiva del suo episcopato, me lo ha voluto riassumere sinteticamente nei termini di una dinamica dello stop and go (fermati e vai), quasi mons. Gottardi si spaventasse dello stesso dinamismo a cui proprio lui dava le mosse, per paura di non riuscire a controllarlo. E questo giudizio può indubbiamente avere un fondo di verità. Ma non bisogna dimenticare quali sono state le origini del suo incarico vescovile, di cui lui non poteva non avere consapevolezza. Gli intrallazzi politici di laici trentini clericali manovrati dal sottobosco monsignorile che avevano sabotato l’opera di mons. Gargitter quale amministratore apostolico sede plena della diocesi di Trento e che avevano fatto rientrare, muovendo addirittura il Quirinale dell’allora presidente Segni, la nomina di don Bruno Vielmetti a successore di de Ferrari e di Gargitter, non gli potevano certo essere ignoti. Sapeva in che mondo veniva a trovarsi. Così come sapeva di essere stato scelto da papa Giovanni anche come segno della non completa capitolazione di fronte alle manovre di questi personaggi "influenti" e delle alte sfere che essi erano in grado di manovrare. E l’illuminata accelerazione che lui ha contribuito a dare al ridisegno delle due diocesi della regione nell’ambito dei confini delle due province è stato un primo segnale della sua indipendenza da coloro ai quali peraltro doveva paradossalmente la sua nomina.
Sul piano più strettamente ecclesiastico il problema della continuità e della discontinuità rispetto alla conduzione immediatamente e meno immediatamente precedente della diocesi comportava la necessità di muoversi tra contraddizioni e tensioni che bisognava capire e indirizzare con tatto e decisione sottraendole ai precedenti condizionamenti che continuavano a pesare. Il Concilio, già in atto al momento della sua nomina, lo ha certo aiutato e lui l’ha interpretato cercando di coglierne lo spirito. Ma anche il Concilio e le dinamiche che portava con sé impattavano con un clero preconciliare dislocato in un Trentino in cui il processo di modernizzazione, allora appena agli inizi, non aveva ancora dispiegato quegli stimoli e quelle necessità di aggiornamento (per usare il termine di papa Giovanni) a cui il Concilio cercava di dare risposte.
I successivi avvenimenti politici ed ecclesiali e i ritmi del mutamento imposti dal processo vorticoso di modernizzazione con relativa secolarizzazione, che in breve hanno omologato il Trentino al resto del mondo industrializzato, non erano facili né da interpretare né da gestire sia in termini politici che religiosi. Cosicché le dinamiche dello stop and go più che a un fatto di temperamento o di una personalità del vorrei ma non posso, si possono anche vedere come inevitabile portato dei tempi, imposto dall’esterno e in buona parte subìto senza reali possibilità di gestirlo. Da uomo di chiesa, della quale è stato fedele servitore fino alla fine, mons. Gottardi da "emerito" si è aperto a un orizzonte più ampio, fino a farsi uomo del regno di Dio, di cui la Chiesa è segno qualche volta inadeguato, come la storia di due millenni è lì a testimoniare? Mi piace pensarlo e scriverlo. E in questo orizzonte dilatato ritengo vada collocata anche la sua morte, tra le pareti domestiche, da vescovo senza potere, amato da un popolo i cui confini andavano al di là dei limiti della pratica religiosa – come l’omaggio alla sua salma e i suoi funerali hanno messo in commossa evidenza.