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Gli araldi dell’ignoto

L’avanguardia russa dialoga e si nutre delle immagini della tradizione. In mostra al Palazzo Martinengo di Brescia fino al 16 aprile.

Il difficile, ma costante, inarrestabile cammino che porta a riconoscere il valore straordinario, la ricchezza e consapevolezza raggiunta dagli artisti fuori dalla Francia e dalla sua capitale, trova un altro capitolo di riflessione nella mostra bresciana dedicata agli artisti russi dal 1900 al 1920.

Kuz'ma Petrov-Vodkin, "Madre di Dio. Tenerezza dei cuori malvagi" (1914).

Gli ingredienti ci sono tutti: il disprezzo della visione borghese dell’esistenza e il conseguente gusto per la bohème; la caparbia ricerca di nuove forme artistiche fino al grado estremo dell’arte come modello utopico di vita in vista di una trasformazione della stessa... "Solo annullando tutte le ricchezze / prendemmo ad arricchire": queste poche parole di Krucenych dimostrano la sicurezza del cammino intrapreso agli albori del Novecento e ne sottolineano il ruolo primario in Europa.

Già nella Russia prerivoluzionaria in città come Tiflis, San Pietroburgo, Mosca l’incontro di letterati, pittori, attori e registi di teatro (Krucenych, Matjusin, Malevic; Larionov, Zdanevich...) aveva prodotto le prime provocazioni sul pubblico e l’irrisione nei confronti dell’arte stessa, utilizzando i modi di un primitivismo e le analogie con l’arte infantile documentate da Brescia-Mostre lo scorso anno.

Michail Larionov, "Venere" (1912).

"L’arte deve dilagare nella vita... Ci dipingiamo perché il volto pulito è ripugnante, perché vogliamo essere gli araldi dell’ignoto" (Larionov-Zdanevich, 1913).

Sempre nello stesso anno Malevich, rivendicava "il diritto dei poeti e degli artisti ad annientare la limpida, chiara, sonora lingua russa, annientare il vetusto pensiero che opera secondo il principio di causalità, lo sdentato buon senso, l’eleganza, la spensieratezza e la bellezza di pittori e scrittori da quattro soldi".

I suoi quadri alogici o le litografie di H. Goncharova che accompagnano spesso i testi di Krucenych e Chlebnikov presentano una certa coerenza di impostazione nella loro disarmonia, nelle forme barbare delle parole in libertà, dei suoni e frammenti della lingua zaum.

E qui al bivio della opportunità di una ricerca, di uno studio sul rapporto arte-poesia in forme assolutamente inedite per il pubblico italiano o del rapporto tra la pittura e il mondo della festa russa, della vita contadina e della ricchezza delle tradizioni e dell’artigianato popolare, la mostra bresciana ha scelto la seconda strada, più larga e scorrevole, comunque felice. Le opere presenti sono di notevolissima fattura e rivelano sorprese nella ricerca delle fonti: il vasto repertorio delle antiche icone per Kandinskij e per le bellissime Madri di Kuz’ma Petrov Vodkin; filatoi e soprattutto giocattoli incisi da mani anonime accostati agli straordinari risultati raggiunti dai più conosciuti Picasso e Braque e ripresi da Pavel Filonov; insegne e vassoi multicolori che ritroviamo nelle nature morte di I. Maskov; abiti femminili e cinture nei rossi furiosi dei quadri di L. Bruni o nei paesaggi di O. Rozanova.

Con A. Lentulov entriamo nel mondo della fiaba o delle suggestioni di pellegrini russi con il "Monastero" del 1910 e il "Samovar" del 1913, immersi in un vortice di luce. Immagini arcaiche, colte nell’immediatezza della loro presenza, forme pure che guardano alla "libertà dell’artigiano" (Zdanevich) e al mito dell’Oriente epifania di vita.

"Che cosa terribile quando nell’arte si comincia a sostituire il lavoro creativo con l’elaborazione delle teorie" (Goncharova).

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