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Rudes containers

Tra i profughi serbi del Kossovo.

La stanza è piena di fumo e gli occhi arrossati cercano dell’aria fresca al di là dei vetri delle finestre. Ma il sole fuori è già sceso ed inizia a fare freddo. Due uomini sono indaffarati attorno ad una stufa a legna ed il comignolo non tira. Il tubo di metallo esce a metà della parete ed all’esterno della baracca il suo è solo un timido tentativo verso il cielo. In tutto s’alzerà di poco più di tre metri, non sufficienti per separare quel po’ di calore della stufa dal fumo.

Un vecchio con la sua pecora nel campo profughi di Rudes Containers, presso Berane (Montenegro).

Siamo seduti su panche di legno, nella stanza ce ne sono altre otto o nove. Alta in un angolo una televisione accesa. I bagliori del video musicale trasmesso ad attimi si riflettono sulla ceralacca delle tovaglie che coprono i tavoli che abbiamo di fronte. L’unica lampadina è troppo flebile e stanca per assorbire i colori aggressivi dello schermo.

I due uomini hanno finito di indaffararsi con la stufa, adesso siedono sotto la televisione, se ne stanno in silenzio e fumano l’onnipresente sigaretta. Ordinati posacenere ricavati da lattine di piselli in scatola giacciono su ogni tavolo.

Siamo nel campo di "Rudes Containers", nella periferia di Berane. Non ha altri nomi se non questo dato sui documenti dell’UNHCR. Alcune baracche in legno e containers in metallo. Tra loro stretti corridoi coperti con teloni ed assi di legno per evitare che in questo piccolo formicaio piova dentro.

In questo campo convivono venti famiglie di sfollati provenienti dal Kossovo con alcuni operai della vicina cartiera, colosso industriale di stampo socialista, di cui ora solo funziona una piccola parte della catena produttiva.

Nel campo l’intimità di ciascuno è ridotta a pochi metri quadrati: due letti, delle piastre elettriche per cucinare ed un frigorifero.

La dignità di queste persone è ancora molta, seppur stremata ed indebolita dall’anno intero trascorso lontano dalla propria casa, dal proprio Kossovo.

Dragiša è una dei due rappresentanti degli sfollati. Ciascun campo collettivo si è auto-organizzato eleggendo qualcuno che li rappresenti sia nei confronti della municipalità, sia rispetto alle agenzie internazionali che si occupano di rifugiati e sfollati. E’ giovane, forse non ha ancora compiuto i 40 anni, i capelli corti e neri e tre figli maschi che curiosi ed affettuosi le gironzolano intorno. Conoscono qualche parola in italiano. E’ una tra le ultime famiglie serbe ad andarsene da Pec/Peja, in Kossovo. Abitavano un appartamento di un edificio requisito dai carabinieri italiani (che fanno parte della KFOR) come base in centro città. Erano rimasti chiusi in casa fino a quando i carabinieri erano riusciti a garantire loro una certa sicurezza, ma in seguito le domande di alcuni albanesi su chi occupasse quell’appartamento si erano fatte troppo insistenti e se ne erano dovuti andare anche loro. Uno dei figli ci rivolge la parola e si fa capire grazie alle molte parole in italiano imparate durante questa convivenza forzata.

Ma Dragiša oggi sta male, ieri è stata portata al pronto soccorso per un malore. Il figlio maggiore deve partire militare e ci sono degli scontri tra milizie albanesi ed esercito nel sud della Serbia, al confine con il Kossovo. "Mi hanno già ucciso il fratello in guerra e non riesco a togliermi di dosso la paura per mio figlio. Prima della guerra non avevo mai avuto di questi malori".

Resta con noi ancora qualche minuto e poi viene accompagnata da un’amica nel "suo" container, non riuscendo neppure a stare seduta. Restano i suoi figli, troppo curiosi per andarsene.

Pian piano la sala comune si riempie; ci sono alcuni bambini ed in prevalenza anziani. Gli uomini un po’ in disparte vicino alla televisione, le donne sedute sulle panche attorno a noi.

Ciascuno di loro ci vuole spiegare dove viveva a Pec, descriverci la casa, darci dei punti di riferimento per trovarla nel caso i nomi delle vie fossero cambiati. Desiderano avere delle foto per sapere od avere una conferma del destino toccato alle loro abitazioni. Alcuni sanno già che non è rimasto nulla, ma vogliono una foto ugualmente, anche fosse solo di un piazzale di ghiaia, di quattro mura bruciate.

C’è chi con gli occhi pieni di lacrime ci chiede delle foto del cimitero, ci chiede di guardare se la tomba di famiglia è ancora lì.

Una vecchietta si avvicina con il suo sorriso sdentato. Lei e sua sorella vivono nel campo collettivo. Entrambe non sono sposate. Le chiamano "le ragazze" e lei s’offende quando i bambini le dicono "nonna". Zia va bene, ma nonna no. "Per arrivare alla mia casa occorre girare a destra dove c’è la fabbrica di farina e poi andare sempre diritti per due ore. La mia casa è vicina ad un prato ed al bosco"; tutto attorno ridono e lei sorride stupita senza comprendere il motivo di tanta ilarità. L’aveva fatta tante volte quella strada a piedi, ed era sicura ci si impiegasse circa due ore. E poi lassù, isolata dalle altre case, la sua era facile riconoscerla.

Dopo che ciascuno ha spiegato dove fosse la propria casa, la stanza pian piano va svuotandosi. Siamo rimasti soli con Grana, una donna che per prima ci aveva accolti nel campo, e con Bosko, uno dei due rappresentanti degli sfollati; soli con la televisione accesa, e su di una parete alcuni poster di Bambi e della carica dei 101, fumetti persi e disorientati alla luce giallognola di quella stanza squallidamente povera.

"Ho lavorato 5 anni in Germania con mio marito per poter comperare quella casa. Adesso non ne è rimasto nulla. Sono qui, malata, non posso nemmeno lavorare". Gli occhi di Grana si velano di pianto: "Voi dovete riuscire a fare qualcosa per noi, adesso. Sono già morte 40 persone tra gli sfollati in quest’ultimo anno. Per i morti non si può far nulla, ma per noi sì, vogliamo poter ritornare".

Noi stiamo zitti, ascoltiamo. "Ho chiesto la pensione in Germania ma mi hanno risposto che sono ancora giovane e che posso lavorare. Che mi diano allora il loro visto e mi invitino là a lavorare. Poi vedranno se con la mia malattia è possibile farlo".

Grana fissa il tavolo, i suoi capelli sono grigi e radi, tirati all’indietro in un taglio corto maschile. La tuta verde coperta da un gilé di lana, nasconde un corpo affaticato e ingrossato. Poi continua: "Per ognuno che ha un cuore ed un’anima è difficile parlare di queste cose; appena arrivati qui eravamo ancora pieni di speranza di poter ritornare a casa nostra. Sono stata in casa 3 mesi, ho subito i bombardamenti, non volevo andarmene. Ma è stata una sofferenza inutile, alla fine ho dovuto abbandonare Pec".

Qualche bambino si aggira ancora tra questi profondi sospiri. Stringiamo le mani ed usciamo all’aperto. La serata fredda e tersa congela sopra di noi un cielo stellato. Dopo tanta sofferenza è un cielo della cui bellezza quasi ci si vergogna. Ce ne andiamo, noi che possiamo farlo.