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Tetka Lola

Montenegro: povertà, degrado e gli occhi dei giovani rivolti all’Europa.

Quasi esattamente un anno fa, iniziava su QT una rubrica ("Lettera dall’altro mondo"), tenuta da un giovane roveretano poco più che ventenne - Aram Cunego - che nel mitico Chiapas messicano c’era stato prima come volontario e quindi come obiettore di coscienza. La rubrica si chiuse insieme all’esperienza di Aram; ma grazie ad un altro giovane roveretano - Davide Sighele - possiamo a partire da questo numero profittare di una nuova corrispondenza da un altro punto dolente del mondo, questa volta molto più vicino a noi: il Montenegro.

Ventiseienne, Davide Sighele è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste con una tesi sul ritorno dei rifugiati nella Republika Srpska. Per fare questa ricerca ha trascorso in Bosnia oltre sei mesi, collaborando intanto con la Casa per la Pace di Trento che in Bosnia partecipava a un progetto delle Nazioni Unite. In seguito ha studiato economia internazionale in una università francese ed ha svolto il servizio civile presso l’Università Internazionale per la Pace, collaborando alla nascita dell’Osservatorio Permanente sui Balcani e soggiornando in Kossovo.

Attualmente Davide si trova in Montenegro con un progetto del Tavolo trentino con il Kossovo che ha come beneficiari gli sfollati serbi e rom scappati da quella regione dopo la fine delle ostilità nell’estate del ’99.

Lola abita al primo piano di una palazzina con quattro appartamenti. Nell’atrio la luce non funziona, la notte precoce delle serate invernali lo oscura in fretta ed obbliga a passi attenti, per non inciampare nei gradini. Lola avrà settant’anni, forse qualcosa in più. A volte li dimostra con una stanchezza triste, ma il più delle volte li nasconde con battute acute ed arrampicandosi sul tavolo di casa sua per appendere le tende appena lavate.

Containers per i rifugiati, alle porte di Berane.

Vicino al portone d’entrata, accatastata in mucchi concentrici, la legna per l’inverno; poco dietro un muro dove qualcuno, con lo spray, scrive ingiurie contro Djukanovic, presidente del Montenegro, subito contraddetto da qualcun altro che lo propone invece come re.

Lola non si chiama solo Lola, ma qui a Berane, città nel nord del Montenegro vicino al confine con il Kossovo, la chiamano tutti "tetka" Lola: zia Lola.

Quando incontra degli italiani ricorda gli anni di occupazione durante la seconda guerra mondiale. Con gli occhi della bambina che era. La distribuzione della cioccolata e delle gallette, le canzoni fasciste cantate alla colonia per i bambini: "Io piangevo spesso perché mia madre non mi aveva iscritta alla colonia; lì si mangiava bene. - ricorda Lola - C’erano tre signore che andavano sempre in giro ben vestite, con i loro zoccoli alti. Volevo essere come loro ed avere un paio di scarpe simili". Ferma il suo racconto e sorride: "Ho capito dopo qual era il loro lavoro".

Qui se si parla di Italia con gli anziani subito viene descritta la regina Elena, moglie montenegrina di Vittorio Emanuele III di Savoia e si ricordano i nomi dei soldati italiani conosciuti al tempo di Mussolini.

Se si parla di Italia con i più giovani ci si sposta invece subito verso la costa, verso quelle relazioni che adesso sono per la maggior parte portate avanti dagli scafisti del porto di Bar, avanti ed indietro con i loro carichi di sigarette, verso le reti Rai e Mediaset ricevute anche sulla costa e qualche prodotto di lusso italiano che fa moda nelle poche boutique di Podgorica. Ma l’Italia adesso significa per molti apertura verso l’Europa, strada verso l’integrazione europea. Si tende a girare sempre più le spalle ai cugini serbi per trovare un’altra parentela e vicinanza, quella del nostro Paese. E la regina Elena più volte risorge a sancire anche per il futuro questa alleanza.

Lola davanti ad un caffè turco sente i suoi due figli parlare di indipendenza del Montenegro. Non li contraddice, gira la tazzina per prepararla alla lettura dei fondi e poi dice di sentirsi montenegrina perché nata in Montenegro, ma di augurarsi che anche in caso di indipendenza non ci sia alcun confine più a nord, a Bijelo Polje, piccola cittadina sul confine con la Serbia: "Non ha senso, parliamo la stessa lingua ed io voglio girare liberamente". E poi un po’ di nostalgia resta di ciò che era la Jugoslavia. Sono i pensionati che avevano contribuito a costruirla. Sono loro che più di altri ne raccolgono le ceneri con le miserrime pensioni ed uno stato sociale fatiscente.

"Berane era una città molto pulita - dice Lola indicando triste la strada lordata dalle immondizie - ma adesso è cambiata, imbruttita". I panni stesi su di un balcone sulla via principale le danno fastidio: "Tempo fa nessuno l’avrebbe fatto".

Ma la vera sofferenza le viene dai ricordi di questi ultimi dieci anni, dei rifugiati capitati a Berane in fuga dalla Bosnia e dalle Krajne croate, dalle migliaia di persone che abbandonavano l’estate scorsa il Kossovo e si riversavano nelle strade della città cariche delle loro miserie: "Erano così tanti, ed io che all’inizio vedendo quelle macchine cariche avevo ingenuamente pensato venissero a vendere qualcosa qui al mercato, ma non era così". Il 13% della popolazione di Berane è composto da sfollati originari del Kossovo. Sono circa 5.000 e 1.000 di loro vivono in centri di raccolta collettivi.

Uno dei figli di Lola, Šaša, adesso abita a Bar, sulla costa, ma ha lavorato a Belgrado, a Sarajevo ed in Slovenia. "Io quando ritorno a Berane non vado mai in centro. Resto qui a casa, faccio solo qualche passo qui attorno. Tutti quelli con i quali sono cresciuto qui se ne sono andati. E’ triste essere stranieri nella propria città, ed allora preferisco non rendermene troppo conto".

Il destino di Berane è simile a quello di molte altre città della ex-Jugoslavia. Chi poteva, in particolar modo le élites intellettuali ed economiche, se ne è andato. E con loro parte dello spirito di quelle città. "C’erano molti mussulmani qui - ci dice Lola - erano dei bravi commercianti, si festeggiava insieme il Bairan ed il Natale, ma adesso sono partiti, la maggior parte vive a Sarajevo".

Tetka Lola si muove rapida tra le bancarelle del mercato. Sono più le persone che vendono, in piedi o accucciate davanti alle loro poche cose, rispetto a chi gira per comperare. Acquista del kajmak, formaggio fresco molto burroso, scambia due chiacchiere con qualche altra anziana. Si fa prestare mezzo marco perché chi le ha venduto le patate non ha spiccioli per darle il resto. I suoi 140 marchi tedeschi di pensione fanno presto a finire, "ma almeno adesso sono sicura di averli, non come con l’inflazione all’inizio degli anni ’90, quando con la pensione ci comperavo solo un uovo". Stringendomi la spalla sorride e dice: "E io pensavo che solo in Italia potevate avere banconote con sopra stampate cifre così lunghe come 1.000 o 10.000; ed invece anch’io sono arrivata a possedere milioni di dinari, che però non valevano niente".

Passa veloce davanti ad alcune donne che stanno vendendo aiuti umanitari ricevuti nei mesi precedenti. Scuote un po’ la testa e dice che è ora di tornare a casa.

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