Passaggi
Vittorio Foa, Passaggi. Einaudi, Torino, 2000, pp.150, £.24.000.
Vittorio Foa era un giovane avvocato torinese quando fu incarcerato per antifascismo. Partecipò alla Resistenza, fu eletto all’Assemblea Costituente. Poi fu sindacalista, parlamentare, docente universitario. Oggi è novantenne. Penso che non lo dimenticheranno quegli studenti che, in una sala affollata, ebbero la fortuna di ascoltarlo, qualche anno fa, a Trento, ripercorrere da protagonista la storia del Novecento. Vecchio, quasi cieco, ma con lo sguardo rivolto fiducioso al futuro.
Questo diario, che attraversa per "frammenti" gli ultimi dieci anni del secolo, io lo leggo come un richiamo, a tutti, a sentirsi responsabili di fronte alla storia.
Lo scriveva dal carcere, quando, nel ’35, comunicava in una lettera la sua "incrollabile certezza" che il fascismo non sarebbe durato fino a fargli scontare tutti i quindici anni cui lo aveva condannato un "finto tribunale" di ufficiali della milizia. "Dureranno meno, molti di meno": era una previsione affidata alla volontà di lotta del popolo italiano.
Lo scrive oggi quando, in tempi di vorticoso cambiamento, il futuro è diventato imprevedibile. E’ un secondo brevissimo la durata della vita dell’uomo moderno, se confrontata con quella del pianeta sul quale abitiamo: eppure non ci sono dubbi, in lui, fra lo scegliere un impegno difficile e il lasciarsi andare all’insignificanza.
La storia non è una rigida concatenazione di cause ed effetti, che determina i comportamenti degli uomini: alla fine sono gli uomini a scegliere, in ogni occasione, fra alternative diverse. Gli ripugna "il vizio di gettare sempre la colpa sugli altri se qualcosa non va bene, il rifiuto di mettersi in discussione". Accanto ai diritti ci sono i doveri: "il diritto guarda a se stesso, il dovere guarda agli altri".
Da bambino rischiò di essere picchiato da un giovanotto fascista che non aveva capito l’ironia del suo "piove, governo ladro", frase pronunciata come satira contro la sua parte, l’eterna opposizione che protesta con il governo anche se arriva un temporale. La pagina sulla "scuola dell’autonomia" è significativa: Foa non sopporta il perenne mugugno, vuole l’impegno, anche quando ci sono dei rischi da correre.
Dalle generalizzazioni rifugge. Preferisce invece mettere in luce le ambiguità e le antinomie dentro la storia degli individui e della società. "L’insegnante deve tirare su i deboli e deve promuovere i più capaci".
Non teme di andare controcorrente, di provocare chi, a sinistra, si accontenta di frasi fatte: la globalizzazione economica gli appare un rischio e un’opportunità. Il Novecento non si riduce, come pensa Eric J.Hobsbawm, a uno scontro fra socialismo e capitalismo: i conflitti più seri del secolo sono stati dentro il capitalismo (fra reazionari e progressisti) e dentro il socialismo (fra socialdemocratici e comunisti).
Il pacifismo non è un valore assoluto: talvolta, Foa lo riconosce con tremore, l’uso della forza è legittimo e necessario.
Con la sinistra pacifista polemizza con asprezza, e con qualche caduta di stile, a me pare. In occasione delle guerre del Golfo e del Kossovo la accusa di "papismo figlio del compromesso storico".
Vittorio Foa ha combattuto una vita al fianco dei comunisti, criticandoli sempre, per la loro presunzione di avere sempre ragione, di essere comunque "diversi", in quanto sapevano la direzione della storia.
Oggi, dopo la caduta del muro di Berlino e il fallimento del comunismo, non infierisce, ma di fronte al silenzio dei milioni di comunisti italiani si interroga: "Dove sono finiti? Sarebbe importante sapere qualcosa delle loro scelte, come le vedevano allora e come le vedono adesso, se sono ancora comunisti e in quale modo, se non lo sono più da cosa sono stati mossi. Il comunismo italiano è un pezzo importante della nostra storia che minaccia di restare senza testimoni." E’ una domanda seria, alla quale in molti potrebbero dare risposta, a livelli diversi di responsabilità: ma di questo in altra occasione.
Ciò che resta, ancora, di questo libretto, è l’incoraggiamento, e il dubbio: "L’identità non è una, è plurima: io sono ebreo e insieme sono italiano, sono anche un torinese, un sindacalista, sono (o credo di essere) di sinistra."