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Regioni Autonome e riforma federale

Tutti si dicono federalisti. Ma quasi nessuno sembra sapere di cosa sta parlando.

Mentre il Parlamento comincia a votare sulla proposta di riforma federale dello Stato, sia pure nell’ipotesi riduttiva del disegno di legge del governo, tra le regioni a statuto speciale ricomincia a serpeggiare inquietudine per il rischio che la specialità venga messa in discussione all’interno di un sistema in cui tutte le regioni divengono più forti.

In realtà le regioni a statuto differenziato si preoccupano un po’ in ritardo, almeno in questa fase della vicenda. A metà degli anni ‘90, quando sulla spinta del successo - e della paura del successo - della Lega il dibattito sul federalismo era divenuto molto attuale, una serie di riunioni e documenti delle conferenze dei presidenti cercavano di inserire nel dibattito il punto di vista di quelle realtà territoriali che già da decenni godevano di autonomia. Tuttavia anche allora il tenore dell’intervento era difensivo, volto a cercare ragioni di differenziazione piuttosto che a suggerire modi e vantaggi del decentramento.

Eppure è fuori discussione che le regioni a statuto speciale trovino piena giustificazione anche in uno Stato federale: ciò che le ha fatte nascere e giustifica la loro specialità è la storia o meglio la capacità dimostrata di garantire la pacificazione in situazioni di conflitto. In questo alcune di esse si pongono come modelli e a maggior ragione in un’Europa in cui si è arrivati alla guerra civile per l’incapacità di dare un assetto istituzionale che permetta la convivenza fra diversi.

D’altro canto è anche vero che proprio la loro specialità avrebbe dovuto spingere queste regioni a esercitare una funzione di stimolo verso un processo di decentramento dello Stato, nella consapevolezza che la specialità isolata in un sistema centralistico può far comodo, perché permette di rovesciare sullo Stato la responsabilità di ciò che non funziona, prendendosi i meriti, ma porta anche frutti negativi. Uno di questi è la pigrizia con cui si affrontano le riforme che portano vantaggi ai cittadini: nelle regioni a statuto speciale, a partire dalla nostra e dalle province autonome, la grande riforma della pubblica amministrazione basata sulla trasparenza e la separazione fra amministrazione e politica, portata avanti dalle leggi Bassanini, è trascurata e in gravissimo ritardo rispetto alle regioni a statuto ordinario. Le regioni e le province autonome inoltre sono caratterizzate da grande centralismo, che priva i Comuni di quell’autonomia che va a favore di una maggiore partecipazione dei cittadini, e si inquadra nel principio di sussidiarietà. La conseguenza di tutto ciò è una situazione di inferiorità nel godimento di diritti da parte dei cittadini delle regioni a statuto speciale. Ciò non rientra nella logica del federalismo democratico, la cui ragion d’essere è proprio l’aumento di democrazia.

Anche le ultime prese di posizione delle regioni a statuto speciale tuttavia non si distaccano dall’atteggiamento difensivo. Si chiedono, anche da parte dei presidenti delle regioni governate dal Polo, più competenze, più libertà d’azione. Non si dice però nulla di come queste competenze vengono esercitate, e neppure se vengono esercitate. Di fatto esistono regioni a statuto speciale che, a differenza delle province di Trento e Bolzano, non esercitano le competenze di cui godono.

Ad un incontro delle regioni e province autonome, il prof. Cerea dell’Università di Trento ha proposto che le regioni, autonome e ordinarie, ottengano tutte quelle competenze che riescono ad esercitare e naturalmente i quattrini necessari a farlo. Ma ad una condizione: che le regioni che non sono in grado di esercitarle, le restituiscano allo Stato. Il principio di sussidiarietà infatti va nelle due direzioni, verso l’alto e verso il basso, perché una politica che su di esso si basa ha al centro l’interesse del cittadino e della cittadina.

In questo momento infatti il dibattito sul federalismo e la riforma dello Stato assume aspetti ben strani.

Tutti si dicono convinti federalisti. Quasi nessuno sa di che cosa sta parlando. Il conflitto europeo fra pensiero federalista democratico ed etno-federalismo (o delle piccole patrie) è ignorato da chi si appresta a votare un passaggio di poteri alle regioni in un clima in cui le ricche regioni del nord, governate dalla destra, sono egemonizzate da una concezione più secessionista che federalista, benché il nome sia esorcisticamente sparito dalle dichiarazioni dei politici del nord e sostituito con quello, che fonda il suo mistero sulla scarsa conoscenza delle lingue straniere tipica dell’Italia, di devolution.

Il fatto è che il federalismo è il sistema migliore di organizzazione della repubblica, se l’obiettivo è la soddisfazione dei bisogni collettivi del cittadino. Allora non conta dove si fanno le cose, ma come. Se l’obiettivo centrale diventa invece quello di strappare un po’ - o molto - potere per concentrarlo in altre mani, sempre lontane dai cittadini e magari diverse solo per schieramento politico, si contribuisce a far crescere un’ottica di antagonismo fra istituzioni e territori, anziché un sistema di collaborazione di uguale dignità. Per questo servono strumenti di collegamento e condizionamento reciproco, che facciano pesare nelle decisioni del centro gli interessi periferici e insieme uniscano in un sistema unitario le nuove realtà autonome dell’Italia del futuro.

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