Verso il diluvio
La mostra al Museo di Scienze Naturali di Trento: una passeggiata fra suggestioni naturaliste ed umaniste, ma che non solleva dubbi sulla fallibilità scientifica.
Fra le piccole e grandi apocalissi che l’avvento del millennio rievoca alla nostra coscienza, non può mancare il mito del Diluvio Universale, metafora del cataclisma ecologico che incombe sull’umanità. Ma il Diluvio suggerisce anche la speranza della salvezza, appannaggio degli illuminati che costruiranno l’Arca. Nasce da questa ipotesi, del tutto laica e razionale, la mostra ‘Il Diluvio Universale’, allestita dal Museo di Scienze Naturali di Trento e caratterizzata da una lettura tutta illuministica del mito.
Non si può che salutare favorevolmente il tentativo del Museo di inserirsi nel dibattito naturalista contemporaneo, attraverso la voce autorevole e prestigiosa dell’Istituzione. Purtroppo però la divulgazione scientifica si arena su una sequenza di fatti, della cui lettura il Museo non si espone a nessuna ipotesi. E’ forse il ripetersi dell’eterno dramma scientifico italiano, che vede le scienze naturali in perenne ruolo ancillare delle scienze umane, quelle sì capaci di vera sintesi? Si ha paura che la risposta sia affermativa, proprio quando il pensiero naturalista internazionale si è evoluto, in anni recenti, in una proficua sintesi con il pensiero umanista, oppure con quello matematizzabile delle scienze esatte.
Si può citare James Lovelock e l’ipotesi Gaia, rapidamente accennata in una delle prime sale della mostra. La Madre Terra del pensiero greco, non è la fragile fanciulla minacciata dalle nostre alchimie, ma divinità indifferente e vendicativa. L’ipotesi di Lovelock è che l’intero sistema dei viventi, la biosfera dei biologi, sia un gigantesco sistema capace di autoregolazione, in costante equilibrio dinamico. E’ indifferente quale sia la specie vincitrice nella competizione ambientale, perché nuove relazioni tra sistemi provocheranno il declino oppure la rinascita. In questo contesto, le catastrofi passate ci ricordano che ben altri sconvolgimenti il sistema Gaia ha assimilato e sostenuto - gli scienziati contano almeno 5 grandi estinzioni nelle ere che precedono la nostra - senza per questo che la vita non sia sparita dalla terra.
Oppure si può citare l’evoluzione del linguaggio della complessità - le leggi del caos, la nascita della cibernetica - dalle prime formulazioni di Norbert Wiener alle disinvolte allegorie del Gruppo di Santa Fe. Comunque la si voglia affrontare, l’idea che i sistemi non siano isolabili e controllabili, ma che siano tra loro connessi in reciproche relazioni ha spinto allo studio rigoroso di fenomeni intrinsecamente impredicibili quali la forma di una nube, l’andamento del mercato borsistico, il traffico urbano, gli uragani. Ma ciò sta modificando la nostra visione del mondo. Paradigma di questo approccio è un adagio che sfondò la parete dei media qualche anno fa: ‘Può lo sbattere delle ali di una farfalla nella foresta amazzonica, provocare un uragano a New York?’.
Possiamo rimanere indifferenti, in un pilatesco atteggiamento assolutorio, delegare agli esperti la soluzione di problemi che riguardano tutti? Ci sfugge il contenuto, ma il senso, il senso lo capiamo benissimo, con solo poco sforzo. La mostra non introduce alcun elemento di dubbio. I fatti sono elencati, ma di queste epistemologie, di queste visioni sul mondo che vengono da un rapporto con la natura sotto certi versi degenerato - ma anche da un rapporto ugualmente in crisi con il sistema della scienza - non sono neppure citate.
La mostra inizia con un legittimo interrogativo. Fino a quando possiamo sostenere l’attuale ritmo di aggressione alle risorse naturali? E con questo si intende l’emissione di anidride carbonica, così come la distruzione delle foreste pluviali, sede dell’80% di tutta la biodiversità oggi conosciuta. Oggi siamo consapevoli che l’interrogativo non è ozioso, anzi, i vari protocolli internazionali sono lì a ricordarlo. Ma altre grandi catastrofi hanno modificato il nostro rapporto con la Natura e altre specie animali, apparse prima dell’uomo, si sono estinte. La razionalità scientifica di stampo positivista ne dà una lettura tutta meccanica, e quindi ottimista, perché conseguenza delle stesse leggi che la scienza del tempo ha imparato a controllare.
Ed infatti la mostra prosegue mostrando l’efficacia dell’opera razionalizzatrice dell’uomo: la biodiversità alpina, salvaguardata nei Parchi Nazionali e nei Biotopi protetti. I numeri sono confortanti: la lince, lo stambecco, le marmotte e altri animali di medie dimensioni hanno ripopolato le nostre valli e le nostre vette. Tuttavia i successi sono attribuiti all’opera di pianificazione e controllo, senza sottolineare lo spirito vitalistico che prorompe in ogni opera di risanamento ambientale - e che stupisce gli stessi addetti ai lavori (si veda il numero 19 del nostro giornale). Riconoscere lo spirito vitale del sistema, introduce una chiave finalistica di interpretazione. Che questo si traduca in panteismo o qualsiasi altra teosofia poco importa, è comunque l’idea religiosa che male si combina con l’attività razionale.
Ed infine si tacciono le difficoltà incontrate nella realizzazione di parchi e biotopi, dovute alle forze sociali che vedono nell’ambiente una risorsa da sfruttare. Non è sfizio sociologico o economicista: è il nostro essere sistema con l’ambiente naturale che va disvelato soprattutto nelle sue espressioni quotidiane.
A questa impostazione non sfugge il dibattito proposto sulle bio-tecnologie. Il tema viene collegato alle tecniche con cui l’uomo manipola i cibi attraverso procedimenti biologici. Antenato dell’attuale manipolazione genetica risulterebbe quindi la produzione del vino e del formaggio. Dal vino Teroldego alla pecora Dolly si è solo attraversato una semplice sommatoria di risultati via via perfezionati!
L’interrogativo nella sala iniziale ‘può la terra essere popolata da cloni di una singola pecora?’ sembra preludere a prese di posizione almeno più passionali. Ma è un’ombra dissolta rapidamente: è sufficiente vedere il campo di applicazione delle conoscenze. Produzione di insulina, disinquinanti naturali e combustibili non inquinanti. Chi non sottoscriverebbe un simile programma di ricerca?
Fosse tutto così semplice. Ma la pecora Dolly non potrà popolare il pianeta, perché i diritti di propietà del gene sono saldamente in mano a una potente corporazione sovranazionale. Così come il sogno della Montarbo è una pianta che produca la migliore frutta del pianeta, ma sia allo stesso tempo sterile, perché così la fornitura di sementi rimarrà un saldo monopolio.
Questa drammatica questione non può essere elusa, essendo connessa con il difficile tema dell’autosufficienza alimentare. Purtroppo la mostra non affronta la questione, propone invece un modello di scienza illuminata, che saprà regolamentare le emergenze future, facendo già oggi campo di indagine fenomeni quali la selezione naturale o le catastrofi atmosferiche. In questa momento della mostra, si poteva almeno fare un accenno che in questi campi disciplinari la globalità delle conseguenze - di un inondazione come di un epidemia - rendono del tutto velleitario il controllo.
Infine la parte dedicata al Diluvio vero e proprio. Dove è la punizione divina? Il meccanicismo ci garantisce che precise relazioni causa-effetto sono da ricercare al momento del dramma. In particolare: è stata la pressione del mar Mediterraneo sullo stretto del Bosforo, tramutata in tracimazione improvvisa, ad inondare i bassopiani del mar Nero. Ma la memoria religiosa della catastrofe attraversa i continenti, le culture e le religioni.
Attraverso qualche tela e qualche acquaforte, vediamo come la suggestione del mito attraversa i secoli con diversi significati: da ‘memento mori’ a consacrazione di nobiltà dei sopravvissuti e così via. Osserviamo i miti legati alla distruzione del mondo del mondo mediterraneo e meso-americano. Ma anche l’emergere del ‘vero’ pensiero scientifico, e quindi l’accantonamento della necessità epistemologica del fenomeno del Diluvio. Prima necessario per spiegare i fossili sulle montagne, ma poi accantonato dalla teoria evoluzionistica. E’ la parte più interessante della mostra, dove il connubbio tra discipline naturali e discipline umane viene finalmente affrontato.
‘Pensa globalmente, agisci localmente’: di fronte all’eventualità di una catastrofe globale, evocata dal titolo della mostra e le cui origini sono ben documentate, ci saremmo aspettati di uscire con almeno una piccola ricetta per i nostri gesti quotidiani. In fondo, siamo noi gli inquinatori. Cosa fare per riequilibrare il nostro rapporto con l’ambiente? Andiamo, un po’ più di coraggio! Se si ha paura di cadere nel panteismo, se comunque si ha piena fiducia negli esperti della scienza, almeno il piccolo motto ecologista poteva essere messo in pratica.
Dobbiamo andare in bicicletta? Dobbiamo costruire impianti di sci? La situazione delle nostre valli è rosea? Da tutto questo il Museo tiene una prudente distanza, non sia mai che si venga accusati di eccessivo ardore politico. Ma troppa prudenza fa male: la mostra non disturba e non preoccupa, ma non sarà neppure troppo ricordata. Ingresso a £. 8.000, un’intera famiglia 16.000. Per i bambini è una visita interessante. Per gli adulti può essere una passeggiata piacevole.