Referendum: un’altra tappa verso l’Europa
Il 18 aprile si vota per rendere più maggioritaria la legge per l’elezione della Camera dei Deputati. Cerchiamo di capire cosa cambierebbe se vincesse il sì.
Dunque, eccoci chiamati a dire la nostra sulla legge elettorale del Parlamento.
No, non state leggendo per sbaglio un numero vecchio di QT. È vero, la data è identica - il 18 aprile - e la domanda sulla quale siamo chiamati ad esprimerci (maggioritario o proporzionale?) è la stessa alla quale nel 1993 oltre l’80% di italiani rispose con un Sì in favore del sistema maggioritario.
Come è possibile, allora, che ci si debba pronunciare un’altra volta sullo stesso quesito? Chi ha barato, quelli che nel ’93 ci avevano promesso che con la vittoria del Sì l’Italia sarebbe diventata una democrazia moderna, con soli due partiti che si alternano alla guida del governo, o il Parlamento, che ha promulgato leggi elettorali contraddittorie?
Facciamo un passo indietro. Della necessità di portare l’Italia verso un sistema di democrazia dell’alternanza si iniziò a parlare con insistenza sin dalla metà degli anni ‘80. Cambiare le regole di funzionamento della politica significava però mettere a soqquadro un sistema di potere che aveva prosperato per cinquant’anni. E cosa fosse diventato quel sistema di potere sono state le inchieste di Tangentopoli e quelle sulla Mafia a svelarlo.
Che molti dei partiti della cosiddetta prima Repubblica, Dc e Psi in testa, si opponessero a questi cambiamenti era quindi naturale: contro la proposta avanzata in Parlamento di introdurre il sistema maggioritario nei comuni, il governo Andreotti pose addirittura la fiducia.
Ecco dunque la necessità di ricorrere direttamente al parere dei cittadini, attraverso lo strumento del referendum. Nel 1989 si mise in moto la carovana guidata da Mario Segni, che raccolse le firme per modificare, attraverso alcuni quesiti referendari, la legge elettorale comunale (estendendo a tutti i comuni il sistema maggioritario già previsto per quelli con meno di 15.000 abitanti), la legge per l’elezione del Senato (facendo scattare sempre il sistema maggioritario nei collegi uninominali) e quella per l’elezione della Camera (limitando ad una sola il numero delle preferenze).
Per quanto riguarda la legge elettorale del Parlamento, l’effetto concreto di quei referendum non sarebbe stato un sistema maggioritario compiuto, ma solo una via di mezzo, comunque importante perché il significato di una vittoria dei Sì sarebbe stato quello di una indicazione popolare nella direzione della democrazia dell’alternanza. Il problema era di natura tecnica: in Italia coi referendum si possono solo cancellare delle leggi esistenti o delle loro parti, ma non si può proporre una legge nuova.
La Corte Costituzionale ammise solo il referendum sulla preferenza unica, che nel 1991 passò con una valanga di Sì, nonostante l’invito ad "andare al mare" rivolto da Craxi agli elettori.
Aggiustato il tiro dopo la sentenza della Corte, i referendari tornarono alla carica riproponendo il quesito sui comuni e quello sul Senato. Il Parlamento riuscì ad evitare il primo, varando per tempo la riforma che introdusse l’elezione diretta del Sindaco, ma suscitando parecchie perplessità per la previsione di eleggere il consiglio comunale ancora col sistema proporzionale. In pratica, il sistema dei partiti cercava di resistere al cambiamento facendo rientrare dalla finestra quel sistema proporzionale che coi referendum si voleva buttare fuori dalla porta.
È importante capire questo passaggio, perché quel metodo sarebbe stato poi utilizzato dal Parlamento in ogni occasione: dalla famigerata legge Tatarella per l’elezione dei Consigli regionali (delle Regioni a Statuto ordinario) fino alla legge elettorale della Camera, di cui si occupa il referendum sul quale voteremo il 18 aprile.
Nel 1993 si votò quindi solo per modificare la legge per l’elezione del Senato. Con la vittoria dei Sì, un vero e proprio plebiscito, si stabilì di attribuire i tre quarti dei seggi del Senato col sistema uninominale maggioritario, rimanendo invece il sistema proporzionale per l’assegnazione del restante 25% dei seggi, attribuendoli attraverso il ripescaggio dei candidati meglio piazzati tra i perdenti nei collegi. Un sistema, quindi, non perfettamente maggioritario, ma d’altronde lo strumento referendario non consentiva di fare di più.
Ciononostante, il meccanismo uscito dal referendum, quello oggi in vigore per il Senato, è semplice e coerente: spinge le forze politiche ad organizzarsi in una logica bipartitica, presentandosi agli elettori sotto forma di coalizioni con un simbolo unico.
Sull’onda popolare del referendum appena votato, nel ’93 il Parlamento varò anche una riforma del sistema di elezione della Camera dei Deputati. E qui venne il pasticcio, o meglio sarebbe dire il tradimento.
In pratica, si stabilì di assegnare il 25% dei seggi della Camera attraverso una elezione all’antica. Su una scheda separata, gli elettori si ritrovano a dover votare secondo la logica vecchia: non un voto di opinione per scegliere chi deve governare, ma un voto di appartenenza sulla base di una presunta affinità ideologica.
Cosicché, al posto delle coalizioni, nella seconda scheda per l’elezione della Camera riemergono tutti i partiti e i partitini, e quelli che compaiono alleati sulla prima scheda sono avversari sulla seconda. Sarebbe come se, di fronte alla richiesta di un dolce al posto del secondo, un ristoratore riottoso a questa scelta si vendicasse cospargendo di sale il nostro agognato tiramisù.
Come non bastasse, il Parlamento si è pure inventato un complicatissimo meccanismo per rendere il meno maggioritario possibile l’esito delle elezioni, andando ad inquinare di fatto anche il risultato su quel 75% di quota maggioritaria. Lo scorporo, così si chiama quel pastrocchio (e lasciamo perdere di spiegare come funziona, perché non basterebbe un numero monografico di QT), ha come risultato quello di far rimontare i perdenti: l’obiettivo di rendere il sistema politico di tipo bipartitico è vanificato (poiché chi non si coalizza in una logica bipolare viene premiato, anziché penalizzato, da questo meccanismo) e si è messo inoltre in serio pericolo la possibilità di formare maggioranze stabili in Parlamento.
Come si fa, poi, a lamentarsi per i ribaltoni?
Eccoci quindi arrivati al nostro referendum, quello che voteremo il prossimo 18 aprile. Il quesito, in sé, è lunghissimo, perché fa pulizia in una legge lunghissima e pasticciatissima. Il risultato, se vincesse il Sì, è invece limpido e semplice, sia per il legislatore (e finalmente avremo una legge comprensibile da tutti, non solo per gli azzeccagarbugli), sia per gli elettori, che anche per la Camera voteranno con una sola scheda e con la stessa logica del Senato. Nel concreto, col referendum si cancellerebbe sia la seconda scheda per l’elezione della Camera, sia lo scorporo. Rimanendo fermo che il 75% dei seggi si attribuisce col sistema uninominale maggioritario, il restante 25% sarebbe assegnato ai meglio piazzati tra i perdenti nei collegi. Per capirci: se vincesse il Sì, alle prossime elezioni politiche voteremmo solo per l’Ulivo o il Polo, e non più per pidiesse, verdi, effeì, aenne, leganord, pipiì, cicidì, cidiù, erreì, errecì, udierre, essediì, ciù, asinello, elefantino e bla bla bla.
Ma con quale credibilità possiamo pensare di presentarci in Europa con un simile Parlamento?
D’accordo, con questo referendum il problema non sarebbe risolto del tutto, perché i partiti si spartiscono i collegi prima delle elezioni e una volta arrivati in Parlamento ognuno torna alla propria casetta. Ci vorrebbe il doppio turno, che spazzerebbe via i micropartiti, e ci vorrebbero leggi davvero maggioritarie anche per i comuni, le province e le regioni.
Ma di fronte ai tentativi di ritorno al passato emersi in Parlamento in questa legislatura, una vittoria massiccia del Sì costituirebbe un segnale forte della volontà degli elettori.
E in Trentino, dove su questi argomenti siamo rimasti indietro di dieci anni, Dio solo sa se c’è bisogno di una forte indicazione popolare per aiutare chi, in Consiglio regionale, si batte da anni per portare anche noi in Europa.
A coordinare l’organizzazione della campagna referendaria in Trentino è Flavio Paiar (raggiungibile allo 0335-5375755). Il comitato referendario, che organizzerà la distribuzione di materiale (e la raccolta di fondi!), ha un recapito postale (C. P. 278 Trento centro) e, visto che siamo nell’era digitale, anche un indirizzo di e-mail (referendum_trento@yahoo. com) e una pagina internet (www. referendum.8m.com).
Se ci si vuole informare di più, nel sito del comitato nazionale (www.referendum.net) c’è davvero tutto.