Occupazione: S. Gennaro pensaci tu!
Oskar Lafontaine se n’è andato. Ma il nodo intricato della disoccupazione resta irrisolto.
Non sono un economista e nemmeno un sociologo e quindi chiedo subito venia per le sciocchezze che, dal punto di vista delle due scienze citate, probabilmente andrò scrivendo. E tuttavia non so resistere alla tentazione di farlo, poiché ne sono fortemente sospinto dalla violenta provocazione intellettuale rappresentata dalle dimissioni di Oskar Lafontaine.
Su questo episodio si è scritto molto in questi giorni. Da ciò che ho capito il terreno dello scontro era ed è, la politica economica che i governi devono realizzare per risolvere il problema dei problemi, cioè l’assorbimento della disoccupazione che in Europa affligge ben 17 milioni di lavoratori.
Tutti sono convinti che un tale obiettivo può essere perseguito con una crescita generalizzata delle attività economiche. Il dissenso verte attorno ai mezzi ed alle misure più idonee a promuovere una tale espansione della base produttiva.
Da una parte Schroeder e Blair, e sullo sfondo Clinton, i pragmatici, i quali puntano ad un trattamento di favore riservato alle imprese con la riduzione delle tasse, la flessibilità del rapporto di lavoro tanto con riguardo ai minimi salariali che ai licenziamenti, la riduzione dei costi dello Stato sociale per liberare le risorse da trasferire negli impieghi produttivi. Così alleggerite da oneri di imposte, sociali e di lavoro, le imprese sarebbero incoraggiate ad incrementare la produzione di beni e servizi che in tali condizioni si prospetterebbe più feconda di profitti.
Dall’altra parte Oskar Lafontaine (presentato come un seguace di John Maynard Keynes, economista liberale inglese molto influente nei primi decenni di questo secolo), convinto invece che la stagnazione dell’economia europea sia determinata dalla caduta della domanda, sia esterna che interna.
La crisi delle economie extra-europee, esclusi solo gli Usa, ha fatto precipitare le esportazioni. Il rigore per il risanamento delle pubbliche finanze ha causato la fine dell’era del consumismo, comprimendo così la domanda interna. E’ del tutto evidente che contenere o addirittura ridurre i salari e i redditi distribuiti dallo Stato sociale non può che comportare una ulteriore depressione della domanda interna. E allora che stimolo avrebbero le imprese ad offrire maggiori beni, ancorché prodotti a minori costi in un mercato di consumatori impoveriti?
Lafontaine era dunque contrario alla riduzione dei redditi da lavoro o da pensioni, favorevole alla riduzione del tasso di interesse sull’Euro per svalutarlo rispetto al dollaro e quindi agevolare la ripresa delle esportazioni, assertore infine di un significativo aumento della spesa pubblica. Il suo progetto, a quanto pare, corrisponde veramente ad una strategia di tipo keynesiano.
Naturalmente anche la linea di Lafontaine incontra serie obiezioni. Ma quella dei pragmatici a me sembra del tutto illusoria e velleitaria rispetto al fine dichiarato di assorbire la disoccupazione di massa che angustia l’Europa.
E’ ormai un luogo comune che il progresso tecnologico applicato alle attività economiche riduce l’occupazione ed aumenta la produttività. Ed infatti il mercato è ormai invaso da fiumi di beni. Cos’è che è possibile produrre ancora in questa nostra società opulenta? Nuove automobili, nuovi elettrodomestici, nuovi telefonini, nuove cibarie preconfezionate o surgelate, nuovi capi di abbigliamento? O nuove case con gli innumerevoli appartamenti sfitti che già esistono? La capacità produttiva esistente è persino esuberante rispetto ai bisogni reali e anche a quelli indotti.
Gli investimenti sono ancora necessari, ma per affinare le innovazioni tecnologiche e quindi ridurre i costi per fronteggiare la concorrenza spietata del mercato globale. Non per allargare la base produttiva e l’occupazione.
Naturalmente ciò non significa che non vi siano più bisogni insoddisfatti. Anzi, ve ne sono molti: il risanamento dell’ambiente naturale devastato, la riorganizzazione dei centri metropolitani imbarbariti, le sacche di povertà ed emarginazione sociale, una giustizia rigorosa ma efficiente e civile, la formazione culturale delle nuove generazioni. Sono bisogni reali la cui soddisfazione è di vitale importanza, e lo sarà sempre più.
Si tratta però di bisogni il cui appagamento non si inquadra nello schema tipico dell’impresa. Il capitale privato cerca per sua insopprimibile natura investimenti che generino un pronto ritorno di profitto. E’ solo l’investimento pubblico che può mobilitare le imprese private ad operare per soddisfare tali tipi di bisogni. Da qui la dottrina keynesiana dell’espansione della spesa pubblica intesa come fomite dell’economia.
La difficoltà sta nel contemperare risanamento della spesa pubblica e sua espansione, allentamento della pressione fiscale sulle imprese e sui cittadini ed incremento dei prelievi per alimentare investimenti pubblici. Difficoltà di altissimo livello, probabilmente in Italia più che altrove. Ciò che mi fa temere che la soluzione del problema della disoccupazione di massa in Europa sia pressoché un miraggio.
Mi consola pensare che sarà anche vero che la disoccupazione negli Usa è quantitativamente minore che in Europa, ma la qualità di gran parte di quella occupazione è, per la bassa remunerazione e per la sua precarietà, di poco preferibile alla disoccupazione con in peggio, rispetto al sistema Europa, una totale mancanza di assistenza sociale e sanitaria.
Forse la soluzione del problema disoccupazione viene dalla fantasia napoletana. Bassolino qualche giorno fa ha proposto di sperimentare la staffetta del part-time: i lavoratori anziani passano a regime di lavoro a tempo parziale per lasciare posto ai giovani che iniziano la loro carriera anch’essi con orario di lavoro limitato.
Identico resta l’onere per le imprese, ma anche il guadagno per le famiglie.
Sarebbe forse anche un modo subdolo per introdurre la riduzione dell’orario di lavoro.
Altro che le 35 ore!