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Viaggi clandestini

Da “La città civile” mensile di Siracusa.

Antonio Roccuzzo

Nel luglio ’97 è riuscito ad approdare in Italia da clandestino. E’ sbarcato a Bari, uno dei tanti che affollano questo silenzioso e sempre più biblico esodo verso l’Occidente. Da due anni lavora, da stagionale prima e ora con un regolare contratto in un’azienda agricola nei pressi di Roma. Confuso tra altre migliaia di altri suoi simili ha fatto la fila in Questura, a Roma, per ottenere il permesso di soggiorno e la sanatoria. E ora otterrà il diritto a vivere legalmente nel nostro Paese. Ma per conquistare l’Italia e la "speranza di vivere meglio del mio paese, dove si lavora e si mangia solo se le piogge sono clementi", Jaswinder Singh, 40 anni, cittadino indiano, nato e vissuto nella poverissima regione agricola del Punjab, nord del continente indiano, sposato con tre figli, è dovuto passare, nella notte di Natale del ’96, attraverso la sanguinosa odissea di un drammatico naufragio di clandestini.

Singh è uno dei trenta sopravvissuti del naufragio della notte tra il 24 e il 25 dicembre ’96, disastro sul quale indagano le magistrature greca e indiana e per il quale la procura della Repubblica di Siracusa ha chiesto 13 rinvii a giudizio per omicidio e disastro colposi. Quella notte Singh si trovava a bordo della nave "Yohan", a poche miglia dalla costa siciliana di capo Passero, stracarica di 525 clandestini indiani, pakistani, cingalesi, africani, reduci da due mesi e mezzo di peregrinazioni tra Medio Oriente, Turchia, Africa e Grecia.

Più di 200 clandestini, erano stati appena trasferiti su una piccola barca d’appoggio battente bandiera maltese che avrebbe dovuto sbarcarli a terra. Ma la barchetta aveva avuto una prima collisione con la "Yohan", imbarcava acqua e c’era mare forza sette. La barchetta tornò indietro e nella manovra di riavvicinamento fu nuovamente speronata dallo "Yohan" e colò a picco con tutto il suo carico umano. Singh era lì, sul ponte della "Yoahn" e vide morire molti suoi amici: "La barca affondò in un quarto d’ora. Dal ponte della "Yoahn" tiravamo funi in mare per cercare di salvare alcuni dei nostri compagni di viaggio. Si salvarono quattro indiani, ma uno di loro morì appena ripescato: aveva i polmoni pieni d’acqua. Il capitano della nave ci ordinò di gettare il suo corpo in mare. E dire che per tre volte avevo cercato anch’io di salire su quella barca, ma il capitano mi aveva afferrato per il braccio e detto che non c’era più posto e che sarei salito a bordo il prossimo viaggio.

Ho viaggiato per due mesi e mezzo, dalla Siria fino a Malta, con scalo a Cipro e poi indietro fino alla Grecia. Il mio letto era in fondo alla "Yohan", al terzo livello sotto il ponte...".

Ma ecco, tra virgolette e per tappe, il racconto di quella tragedia di immigrazione clandestina verso l’Italia, raccontata in prima persona da chi l’ha vissuta ed ha rischiato di lasciarci la pelle: "La prima volta che ho cercato di partire clandestinamente dall’India non mi è andata bene. Vediamo un po’... sì, è stato nella primavera del ’96. Nel mio paese facevo il contadino: nel Punjab si coltiva riso e grano, ma solo se durante la stagione non piove. Sapevo che c’era un’agenzia che organizzava viaggi verso l’Occidente e conoscevo un sub agente nella mia regione in India. Sapevo che questa persona aveva organizzato un viaggio in Germania e che tutto era andato bene. Ho trovato questa persona e concordato la partenza e il prezzo, settemila dollari. Sarei partito in aereo con destinazione ufficiale la Germania. Dopo alcune settimane il mio contatto cambia programma: mi dice che il prezzo è aumentato a novemila dollari, e che non si parte più per la Germania, ma per la Gran Bretagna. Così partiamo e io anticipo 3.500 dollari. Un viaggio incredibile di andata e ritorno da e per l’India. Partiamo da Bombay, atterriamo a Caracas, in Venezuela, ed io questo lo so solo all’aeroporto. In Venezuela dico che voglio andare a Cuba, ma non posso - mi risponde il mio sub agente. E allora, siccome non si può scendere in Gran Bretagna, rifacciamo il viaggio all’inverso con scalo all’Avana, poi in Olanda e in Francia. Infine, riatterriamo a Bombay. Viaggio fallito, una delusione per la quale ho pagato l’anticipo inutilmente.

Secondo tentativo: "Passano sei mesi e io aspetto a casa di sapere quando si organizza il prossimo viaggio. La nuova data della partenza è fissata il 9 settembre ’96. Partiamo in 25 indiani da Nuova Delhi, in aereo. All’aeroporto so che in partenza siamo in molti, ma divisi in gruppi diversi. Alcuni vanno verso il Cairo, altri per Amman, in Giordania, e poi per Damasco, Siria. Qui atterriamo e veniamo trasferiti nel porto della capitale siriana.

Nella nave, nella quale stiamo fermi, all’ancora, per un mese circa, troviamo altre 75 persone, indiani e pakistani. Da mangiare non ci danno che un po’ di riso e un po’ d’acqua. A poco a poco la stiva si riempie e dopo due settimane siamo circa in duecento. Alla fine, di notte, ci trasferiscono in un’altra nave, con altri a bordo. Siamo circa quattrocento, quando il capitano decide che è l’ora di partire. Su questa seconda nave mangiamo un po’ meglio, ma l’equipaggio deruba i pochi soldi e gli oggetti d’oro che qualcuno porta con sé. Sai, nella stiva c’è sempre qualcuno che sa che hai quattro soldi. Lo dice all’equipaggio e quelli arrivano e ti levano tutto. Non so con esattezza quanto, ma da quel momento vaghiamo in giro per mare. Certamente approdiamo in un porto di Cipro, forse Larnaca.

Ci fermiamo in mare in acque greche, ma la polizia va via senza controllare. Poi ci trasferiscono in mare in una terza nave che è la "Yoahn" e alla fine siamo esattamente 525: molti compagni di viaggio dicono di essere arrivati dall’Africa, ma non ricordo da dove. Un giorno sentiamo degli elicotteri sopra di noi, c’è agitazione. Vediamo le coste greche e speriamo di approdare, ma il capitano comunica che non si può e riprendiamo il largo. Io vivo al terzo livello sotto il ponte, in fondo alla nave. Ogni tanto l’equipaggio ci indica luci sulla costa. Questa è Malta, questa è la Sicilia..."

I

l giorno del naufragio: "Un giorno, era mattina, forse le 5 o le 6, ero andato in fondo alla nave a fare pipì. Sento un po’ di rumore e una barca che approda. Era la Polizia e noi eravamo a Malta. Ma non fanno controlli. Poi, dopo alcune ore di navigazione, arriva una barchetta con equipaggio maltese, che sento ma non vedo perché l’equipaggio ci aveva chiuso lì sotto, annunciandoci che presto sarebbe arrivato un ferry-boat per prenderci e portarci a terra. Quando, su nostra richiesta, ci aprono e ci portano sul ponte, c’è mare grosso e non ricordo se ho visto le luci di costa. So solo che, visto il mio primo viaggio in aereo con ritorno in India, avevo voglia di salire a bordo di quella barchetta e andarmene da lì verso l’Italia. Ma quando arrivo sul ponte la barchetta è già piena zeppa di altre persone. Mi prende il panico, penso che se non salgo ora rimarrò ancora in fondo a quella stiva e non voglio. Tento, insieme ad altri di saltare sulla barchetta che beccheggia, ma il capitano mi trattiene per tre volte e mi dice di avere pazienza che la barchetta tornerà a prenderci dopo avere sbarcato gli altri.

Dopo un’ora di ressa nella tempesta, la barchetta parte: prende già acqua. Io e i due ragazzi pakistani che stanno con me al livello meno tre, nella stiva, torniamo giù e cuciniamo. In fondo quella era la notte di Natale. Aspettiamo. Passa un’ora e ci dicono che la barchetta non tornerà più indietro e allora mi riprende la malinconia e mi preparo ad andare a letto. Poi, all’improvviso, sentiamo un botto fortissimo sulla parete della stiva. Di corsa facciamo le scale verso il ponte e vediamo una scena incredibile: la barca maltese è lì, sta naufragando ed è piena d’acqua, due uomini dell’equipaggio si gettano in mare, dalla "Yohan" c’è gente che lancia funi verso quelli che stanno colando a picco e in un quarto d’ora infatti la barchetta si inabissa. Che ricordi io, solo in quattro si salvano, due indiani e due pakistani. Io e altri due, dalla nave grande, tiriamo a bordo un indiano che è mezzo morto, ha i polmoni pieni d’acqua. Muore dopo pochi minuti e il capitano tra le proteste di tutti noi ordina di gettare il suo corpo in mare. Questa è la mia notte di Natale ’96".

V

erso la Grecia: "Dopo il naufragio, facciamo rotta verso la Grecia e approdiamo a Poro, isole Harmion. Siamo rimasti poco più di duecento. Quando la nave prende terra alcuni si consegnano alle autorità greche di polizia e raccontano l’accaduto. Altri, me compreso, scappano. Molti di noi erano stati derubati di tutto. Io no, avevo conservato circa duemila dollari, cuciti nel risvolto dei pantaloni. Insieme ad altri voglio andare avanti, arrivare in Italia. Non voglio tornare indietro.

Con altri due indiani ci rifugiamo in campagna: lavoriamo per alcuni mesi la terra. Poi troviamo un contatto con alcuni piccoli armatori greci e concordiamo di farci sbarcare a Bari. Pago 1.100 dollari per il viaggio. E insieme ai miei due amici, nel luglio nel ’97, cammino su una spiaggia vicino a Bari.

Degli altri due non so molto: uno di loro ora sta in Germania, l’altro è tornato in Grecia. So solo che da Bari ho viaggiato verso Roma: sapevo che alcuni miei conoscenti della mia regione del Punjab lavoravano vicino Roma, in agricoltura. Avevo un indirizzo e lì sono andato.

Da quel momento lavoro: raccolgo zucchine e cicoria. Da alcuni mesi ho un lavoro fisso e aspetto la sanatoria. A mia moglie e ai miei figli non ho mai raccontato nulla di quel viaggio. Che non rifarei".

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