L’articolo 513, la Consulta e i politici
L'equilibrata sentenza della Corte Costituzionale; purtroppo attaccata a testa bassa dalla sinistra. Speriamo sia solo ignoranza.
I lettori di questa rubrica sanno quanto io fossi contrario all'art. 513 c.p.p.. così come modificato dal Parlamento nel 1997. Ho ripetutamente scritto come il principio di "civiltà giuridica" (contraddittorio, parità tra accusa e difesa) fosse stato applicato a rovescio, e che la nuova norma fosse in realtà una vergogna giuridica, perché senza garantire il contraddittorio poneva nel nulla le prove raccolte in istruttoria vanificando l'efficienza del processo. Ora la Corte Costituzionale, massimo organo di controllo, si è pronunciata dichiarando parzialmente incostituzionale l'art. 513.
Non posso nascondere la mia soddisfazione, condivisa da illustri giuristi. Il prof. Federico Grosso, docente di diritto penale all'Università di Torino, ha definito la sentenza "di grandissimo rilievo sia teorico che pratico". Ugo Spagnoli. ex giudice della Consulta, in un articolo di esplicita difesa della sentenza, ha scritto che essa è in linea con la precedente giurisprudenza e che alla sua base vi è il bilanciamento dei due principi fondamentali del processo: l'accertamento della verità e il contraddittorio. Giovanni Conso, professore di diritto e procedura penale, già Presidente della Corte, si è mosso sulla stessa linea e ha sottolineato l'intelligente equilibrio della sentenza, che non potendo sostituirsi al legislatore, ha indicato una via per il riassetto complessivo della materia.
Soddisfazione hanno manifestato anche i magistrati, soprattutto coloro che sono impegnati nelle grandi inchieste contro la mafia e la corruzione. Il dott. D'Ambrosio della Procura di Milano ha dichiarato che la sentenza costituisce "un passo in avanti, perché riconosce l'esigenza processuale di accertare la verità ". Il dott. Antonio Ingroia della Procura di Palermo a sua volta ha dichiarato: "La pronuncia della Corte Costituzionale costituisce la soluzione migliore per contemperare il principio del contraddittorio e quello dell'efficienza del processo, che deve essere in grado di accertare i fatti e di individuare le responsabilità penali. E' importante che la Corte abbia annullato questa controriforma dell'art. 513 che mortificava le regole del processo accusatorio ".
Potrei continuare a riportare numerosi altri giudizi positivi espressi da esperti del diritto, docenti universitari, costituzionalisti. La reazione della grande maggioranza degli avvocati e degli uomini politici (anche di sinistra) è stata invece contraria alla sentenza. Hanno parlato di invasione di campo, di arroganza della Corte, di supplenza legislativa, di passo indietro, di mortificazione della difesa. Non mi occuperò di queste critiche, molte delle quali viziate da evidenti interessi di parte (parcelle miliardarie, contiguità con la mafia, appartenenza politica al partito azienda, ecc.). Vorrei invece spiegare ancora una volta come stanno le cose e fare chiarezza intorno al 513, che è uno snodo essenziale del nuovo processo penale, specie nelle indagini di mafia e di corruzione. Bisogna dunque riaffermare con chiarezza che il fine del processo non è il contraddittorio (difesa contro accusa, ad armi pari). Il contraddittorio è solo un mezzo. L'altro mezzo essenziale è la prova, che si forma o si vanifica nel contraddittorio. Il fine del contraddittorio è accertare i fatti e decidere. Senza il contraddittorio non esiste giusto processo. Senza la possibilità di raccogliere, conservare e "formare" la prova, non esiste il processo.
Bisogna dunque aver chiaro che per avere un giusto processo occorrono sia il contraddittorio, sia la prova (positiva o negativa).
L'art. 513 riformato dal Parlamento,concedendo al pentito di non rispondere, vanificava la prova senza garantire il contraddittorio. Era dunque una vera e propria truffa. Bene ha fatto la Corte Costituzionale a toglierlo di mezzo. Non potendo legiferare, ha dovuto ricorrere ad un escamotage per aggirare l'ostacolo e per indicare nel contempo la via da seguire. Il pentito, come è noto, è una figura ambivalente: è imputato ma è anche testimone. Come imputato ha il diritto di tacere. Come teste volontario invece, spontaneo accusatore di terze persone, dovrebbe essere costretto a parlare anche in dibattimento, ponendo norme sanzionatorie. Questo non può farlo la Corte Costituzionale, ma dovrà prima o poi farlo il Parlamento se si vuole tutelare lo Stato di diritto e nel contempo il processo di tipo accusatorio. Stupisce che la sinistra non abbia capito queste cose. Stupisce e preoccupa che dirigenti politici Ds abbiano attaccato a testa bassa la sentenza della Corte.
Ignoranza? Mi auguro di sì, perché altrimenti dovrei fare ipotesi inquietanti. La preoccupazione nasce dal fatto che in un paese come il nostro, dove la giurisdizione è sottoposta a forti torsioni, se la sinistra non difende il diritto e i suoi organi di controllo, chi mai potrà farlo? Berlusconi?
La sinistra, invece di abbandonarsi a critiche sconsiderate, dovrebbe per prima cosa rispettare le regole della Costituzione e le sentenze della Consulta, se vuole a sua volta essere rispettata anche nella sua nuova funzione di governo.