Italie a confronto
Un incontro, a Cagliari, fra insegnanti di storia: variegata corporazione che garantisce una scuola pluralista.
Qualche tempo fa, a Trento, Silvio Lanaro, autorevole studioso dell'Italia contemporanea, ci ricordava che ogni ricerca storica, anche sul passato più lontano, nasce sempre da un'urgente domanda sul presente. Quale può essere oggi questa domanda, capace di vincere l'indifferenza e la diffidenza di studenti e di insegnanti, nei confronti della storia del Novecento?
Lanaro rispondeva che la domanda più motivante è quella sull'identità dell'Italia alla fine di questo XX secolo: che cos'è oggi questa nazione?
Che cosa cioè, nonostante tutto, ci tiene insieme, così divisi e così diversi?
E' con questo interrogativo che ho partecipato, a Cagliari, a un convegno di insegnanti sulla storia economica del '900.
Non ero mai stato in Sardegna, eppure ho cinquantacinque anni, e insegno storia da trenta. Che mi ci abbia mandato la scuola, lo considero un fatto importante.
Sessanta insegnanti da varie province, a studiare insieme una settimana, è una goccia, nel deserto della formazione e dell'aggiornamento. Ma è forse anche un segno che la società preoccupata intende chinarsi con attenzione sul problema della scuola: certo a farlo è questa società in crisi, con le sue contraddizioni, con il suo debito immane, incerta sul suo futuro.
La provincia di Vicenza esporta, da sola, quanto la Grecia e, insieme a quella di Treviso, come l'Argentina. Gli insegnanti provenienti dal Nord-Est sono, mi pare, orgogliosi di questa ricchezza, e pretendono, nel nostro gruppo di lavoro, che il malessere della "Padania" sia definito il più "eclatante" dell'intera nazione. Uno nega che al Sud ci sia vera disoccupazione, e interpreta la crescente descolarizzazione nella sua zona, cioè la scelta da parte dei sedicenni di abbandonare la scuola per un lavoro produttivo e redditizio, come una critica positiva nei confronti di una scuola vissuta come inutile e irrilevante. Gli risponde appassionata una collega di Napoli, dove la mancanza di lavoro, lo sfruttamento in nero, l'evasione disperata dall'obbligo scolastico sono fenomeni reali e indegni di un paese civile.
Dentro la più ampia questione meridionale, qui a Cagliari, anzi a Quartu S.Elena, tocchiamo con mano "l'emergenza Sardegna", che raramente riesce a conquistarsi un posto sui mass-media nazionali: ce ne parlano, con insistenza e pudore, i colleghi e le autorità, orgogliosi di avere degli insegnanti da tutt'Italia a studiare con loro, e fiduciosi, quasi, che da questa presenza possa venire un bene per l'isola intera.
La vediamo, la crisi, durante il viaggio alla reggia nuragica di Barumini, nelle campagne e nelle case abbandonate, nei brillanti ma radi aranceti, nei greggi immobili e dolenti sulle colline brulle. E le miniere vanno chiuse perché non concorrenziali, nell'età nuova della globalizzazione, ci ripete, con una foga persino eccessiva, l'economista Francesco Pigliaru. Io, sceso quaggiù dall'autonoma provincia di Trento, ricca di un immenso bilancio, faccio la figura dell'assistito, e senza giustificazione dicibile. Quale dipendente provinciale sono poi perseguitato dall'invidia curiosa sullo stipendio aggiuntivo, e da nessun'altra domanda su un'eventuale diversa qualità della scuola trentina. Farfuglio qualche risposta, inesperto di questioni sindacali, ma non convinco nessuno.
Mi accaloro invece a spiegare la questione sudtirolese: che i confini di una nazione siano pensati quelli naturali dei monti e dei passi alpini, mi pare, fra insegnanti di storia, inaccettabile. Fortunatamente è presente anche un collega ladino della Val Badia, che parla con competenza di minoranze, di bilinguismo, di proporzionale etnica, e spiega l'oppressione fascista e il barbaro accordo sulle "opzioni" imposto da Hitler e Mussolini a un popolo sballottato come un oggetto. Quando nel mio gruppo si discute di migrazione fra le due guerre, esigo che si scriva, ignorato da molti, come rilevante e terribile, il trasferimento massiccio di lavoratori in Alto Adige per italianizzare quella provincia di cultura tedesca.
Mi faccio forte del prestigio di Paolo Sylos Labini che, nell'introduzione al nostro corso sui "Modelli economici", toglie l'economia dal suo piedistallo, e, pur avverso a piani decisi dall'alto e fautore di un mercato (libero e regolato), nella sua saggezza di vecchio che ha traversato i drammi del secolo, riconosce che non è l'economia l'ambito più importante nella storia degli uomini e delle donne.
Talvolta insegnano male gli illustri docenti universitari: non rispettano i temi e i tempi assegnati, non sfruttano l'aula multimediale predisposta con cura da questo liceo di Cagliari efficiente e ospitale, lasciano inattive persino le vecchie tecnologie come la lavagna luminosa e la fotocopiatrice. Fra di noi qualcuno è stanco e sfiduciato, persino davanti a vini e formaggi dolcissimi, e con un mare che cambia colore ogni minuto, quando al mattino la sua luce invade la stanza, che ci vorrebbe Monet per afferrare quel blu mobilissimo.
Le chiavi di volta sono globalizzazione, mercato, crisi dello Stato sociale, e a parecchi, a sinistra, suonano ruvide queste parole, e reagiscono. Qualche lampo illumina di luce diversa i lavori, come quando Ester Fano ricorda che John Keynes, obiettore di coscienza alla prima guerra mondiale, voleva che il paese debitore, la Germania sconfitta, venisse finanziato e non strangolato dai vincitori. Per ragioni economiche, prima ancora che etiche: respinti i suoi argomenti, il grande economista inglese abbandonò il tavolo della pace, fra fosche previsioni sul futuro dell'Europa e del mondo.
Alcuni di noi pensano all'attuale debito estero che strangola i paesi sottosviluppati del Terzo Mondo, e riflettono sul valore e sui limiti dei modelli matematici in economia: quanta potenza descrittiva e quanta capacità predittiva sono contenute in un grafico "oggettivo"? Il rapporto fra economia e politica è sempre dialettico, anche perché - direbbe Gregory Bateson - la mappa non è mai il territorio.
Gli insegnanti di storia (e tutti gli altri) sono diversi fra loro. C'è chi legge Il Giornale e non trova Vittorio Feltri a destra abbastanza, chi legge Il Manifesto e Valentino Parlato non gli pare abbastanza a sinistra: le relazioni, le tabelle, i grafici non sono parole e numeri freddi. Ognuno ascolta, legge, ed interpreta, e poi, legittimamente, entra in aula ad insegnare. Qui a Cagliari, nei lavori di gruppo, utili e faticosissimi, perché ognuno di noi è da sempre abituato a operare come un monarca assoluto, ci scanniamo su una parola, non solo sulla selezione e sulla rilevanza dei temi storiografici. E sulla funzione prevalente della storia, se essa è cognitiva, oppure etico-civile-politica.
Capita anche di vergognarci: a un collega devo spiegare che il Tirolo copre un territorio al di là e al di qua delle Alpi, che Degasperi non è mai stato un irredentista, che all'Austria è stata attribuita dalla comunità internazionale una qualche sovranità sull'Alto Adige.
Io so poco del modello di sviluppo economico emiliano-marchigiano, e nulla dell'emigrazione dal Veneto nell'Agro Pontino, durante il ventennio fascista, che a un trevisano pare di ben altra importanza rispetto all'immigrazione in Alto Adige su cui io mi sono impuntato. Gli consiglio di leggere, come ai miei studenti in preparazione del viaggio d'istruzione in Val Pusteria, "L'italiana " di Zoderer.
Una sera assistiamo allo spettacolo musicale "Procurade e moderare, barones, sa tirannia", che è il canto della rivoluzione anti-feudale sarda di fine '700: passare nel corso di una giornata dalla cultura premoderna dei Launeddas alle figure impalpabili e postmoderne dei discussants, fa uno strano effetto, incerti come siamo sui guadagni e sulle perdite del progresso storico. Questa è la "corporazione" degli insegnanti di storia. Garantisce che il dibattito è aperto, che non ci sarà una didattica ufficiale di Stato sulla storia del '900. Vista da Cagliari, è rappresentativa di una nazione ad identità plurale e debole, e non mi pare un gran male. Rispetto ai piloti e ai macchinisti, agli allevatori e ai commercianti, gli insegnanti sono più fragili: non abbiamo aerei da bloccare sulle piste, né letame da spargere sulle autostrade. Ci affidiamo alla "compassione" della società.
Ma è forse anche per questa nostra intrinseca debolezza che possiamo entrare in aula ogni mattina, e guardare dritto negli occhi i giovani sparsi fra i banchi in attesa. E ricordare loro - me lo faceva notare una giovane collega giuliana, tornando l'ultimo giorno dall'aeroporto - che sulle vie della Sardegna, povera e bellissima, sono ormai presenti anche in inverno, a unificare l'Italia, gli stessi marocchini e senegalesi che si vedono a Trieste, lontana città travagliata da tutt'altri problemi.