Le ceramiche del nostro declino
“Bertozzi & Casoni. Antropocene” Trento, Galleria Civica, fino al 5 giugno
Se c’è un filo che unisce le ormai numerose mostre ideate da Sgarbi, nel tempo della sua gestione del Mart, questo è lo spazio e il rilievo riservato ad artisti con spiccata capacità di imitare il reale e con attitudine alla citazione. I due ingredienti, distinti, vanno volentieri a braccetto, e li vediamo all’opera anche in questa mostra del collettivo Bertozzi & Casoni curata da Gabriele Lorenzoni; dove però emerge soprattutto un discorso sul presente, uno sguardo a dir poco allarmato sullo stato e il destino della società attuale.
Questi artisti sono maestri nell’uso della ceramica dipinta, capaci di ricreare con prodigiosa fedeltà ogni oggetto reale, sia esso un orso polare o una pila di stoviglie sporche. Ma fanno entrare in gioco dei fattori che, come anticipa il titolo della mostra, vanno oltre il senso di meraviglia quasi infantile suscitato dai loro numeri di bravura. Si tratta della ripresa del tema, non recente e per altro ormai recepito almeno sulla carta anche dai governanti europei, della società dello scarto e della crisi climatica, con l’ affiorare poi di dubbi drammatici sulla condizione e le prospettive dell’Homo sapiens.
All’inizio, sono i bidoni da petrolio alla base del gabbione che imprigiona il plantigrado polare a indicare le cause della sua possibile estinzione, in una sorta di anticipato monumento funebre.
Poi viene la citazione dell’ Arcimboldi, che non si limita alle repliche in tre dimensioni delle sue teste “ortofrutticole”: le ricompone anche con pezzi di oggetti di consumo cosiddetto durevole, destinati alla discarica.
E di colpo, una riflessione più radicale sulla specie umana ci viene imposta quando una replica della figura (ipotetica) di Lucy, l’ominide di circa tre milioni di anni fa così denominata dagli antropologi, ci si para davanti vestita di un luminoso abito di raso bianco, a chiederci quanto di primordiale rimane nell’uomo di oggi sotto la sua pretesa civiltà.
Proseguiamo guardando delle opere multiple attaccate al muro, che emanano un sentore cimiteriale: sono la moltitudine gli armadietti per medicinali spalancati e abbandonati agli insetti, rimasti a colonizzare i nostri ultimi relitti. E sono le cassette per le lettere, anch’esse oggetti obsoleti, di un’altra epoca, da cui sbucano stampati di pubblicità che nessuno si è più curato o ha avuto il tempo di estrarre e consultare.
Ancora, gli accumuli di “vuoti” delle nostre abituali risorse energetiche, ancora i bidoni, le bombole del gas.
Accanto a tutto ciò, la mostra contiene alcuni momenti pensati apposta per questo percorso. Sono i confronti, i dialoghi con quattro artisti presenti nelle collezioni del Mart: Fausto Melotti, autore di eleganti oggetti di ceramica di sapore arcaico ed essenziale posti qui in forte contrasto con l’iperrealismo delle comuni stoviglie di Bertozzi & Casoni; Lucio Fontana, la cui figura femminile, anch’essa in ceramica dipinta, di inquieta impronta informale, crea un contrasto anche linguistico con il voluto anacronismo della sopra citata Lucy. Su un altro piano, alla ricerca di un controcanto tridimensionale, è il dialogo con i fiori quasi appassiti di Giorgio Morandi e gli oggetti solitari e sfocati di Adalberto Libera.
Se dunque la centralità degli oggetti, e il modo stesso di riprodurli, possono in una certa misura rimandare al filone della pop art (talora citata in modo esplicito), il taglio surreale e le intenzioni di questa ricerca hanno un segno opposto: non vi spira affatto il trionfo della società opulenta, ma il suo declino, come nella fatale chiusura di un’epoca.
Il che è confermato, in finale di percorso, dalla malinconica figura di Pinocchio, burattino invecchiato nella lettura di molte edizioni della sua storia; e come sigillo conclusivo, dal “memento mori” di un mucchio di ossa.