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Il ritorno delle belve

Bentornate! Ma sta sempre all’uomo dirigere l’orchestra

Omero nell’Odissea (IV, 384-463) racconta di Proteo, il Vecchio del mare, pastore di foche, che era capace di radunarle a branchi sulla spiaggia, le contava, ne macellava qualcuna per servirsene (carne, cuoio, grasso, ossa, denti…) e poi le disperdeva fino a nuovo ordine: un bellissimo aneddoto per raccontare come l’uomo primitivo, forte di energie psichiche oggi semidimenticate, quelle dello sciamanesimo, si sia provato a domesticare le specie più varie, anche oltre il quadro canonico che conosciamo, poi risultato vincente – ovicaprini, bovini, equidi, suini – cimentandosi in un dialogo nei due sensi, in cui l’uomo insegue l’animale selvatico, lo stana, lo costringe alla resa, e l’animale, da parte sua, concede all’uomo una parte delle sue qualità, divenendone il totem, il protettore, l’essenza, l’antenato.

Per restare a Omero, ecco infatti che Ulisse è bisnipote di un’orsa, madre di suo nonno Arcesio padre di Laerte, ed è anche imparentato con il lupo, Autolico, il “vero lupo”, padre di sua madre Anticlea: un vero tipaccio, di quelli che mettevano in pentola gli ospiti poco graditi, e li offrivano sul piatto ad altri ospiti ignari, come il nostro Bokassa.

Attratti dal potere psichico dell’uomo, ma respinti per forza di cose da qualsiasi processo di domesticazione, i grandi carnivori – orsi e lupi da noi, altrove leoni, iene, coccodrilli, tigri, puma e via dicendo – se ne tornano nella foresta carichi di un loro acquisito carattere fiabesco, di una loro personalità di personaggi prevalentemente riottosi, capricciosi, bugiardi, infidi, crudeli che riflettono il loro caparbio resistere all’uomo e alle sue istanze di dominio. Diventano così i personaggi naturali delle fiabe, delle leggende, delle messe in scena carnevalesche, che pullulano di questi esseri, sull’arco alpino e non solo, ovunque venga dato loro campo libero.

Perfetto paradosso degli animali totemici di casa nostra, per tutto il corso dell’ultimo secolo, è stata la loro quasi totale sparizione dagli scenari naturali che ne avevano conosciuto la presenza per millenni, nutrendosi del loro spirito, della loro anima, da noi come in tutti i luoghi selvaggi del pianeta. Ora però, grazie a operazioni di reinnesto non sempre e non del tutto responsabili, almeno a giudicare dai risultati, questi animali sono tornati a far parlare di sé, in un contesto radicalmente rinnovato, che non è più quello delle fiabe dei Grimm o dello Schneller, ma è quello della nostra modernità automobilizzata, securizzata, integralmente turistificata. In questo mondo passato al setaccio, monitorato, candeggiato, ipercontrollato, quali sentimenti suscita il ritorno dell’orso e poi del lupo, gli eterni, incorreggibili bricconi della fiaba europea?

La questione, come è noto, è complessa: da un lato, vi è il miraggio sacrosanto di una wilderness sognata, ma percepita quotidianamente come un’utopia vivificante, indispensabile a fronte della disumanità delle megalopoli, della cementificazione metropolitana che incombe da ogni lato. Dall’altro, vi sono le istanze di chi in montagna deve e vuole vivere, e non può certamente fare sconti al lupo e all’orso, quando si tratta di mandare avanti un’azienda zootecnica, di far camminare in sicurezza i bambini nel bosco, o di offrire i propri territori agli ignari turisti che vanno per funghi.

Su questo terreno insidioso andiamo a scomodare un giudice autorevole al di sopra delle parti, non già il Vecchio del mare di Omero, ma un gran Vecchio della montagna, il nostro Mario Rigoni Stern, mancato nel 2008 (si celebra proprio quest’anno il centenario della nascita), ma dal quale possiamo nondimeno – con tutte le cautele del caso – cercare di ricavare una testimonianza.

Interprete letterario convinto di uno sciamanesimo elementare che fa della caccia, dell’inseguimento dell’animale selvatico, una sorta di rito benefico che punta soprattutto al rinnovarsi della vita, Mario sentiva agitarsi nel bosco gli spiriti animali, cioè gli spiriti propri di tutte le specie animali, come le essenze, i singoli colori di un grande affresco corale che ci racconta di un mondo vivo, di un universo vivo. Per questo, Mario, che visse i suoi grandi anni di caccia in un momento di epocale contrazione della fauna selvatica, quando l’incontro con un capriolo, con un gallo di monte, con un cervo, era diventato ormai un evento raro, avrebbe certamente salutato con entusiasmo l’attuale cospicua ripresa della selvaggina stanziale, e con altrettanto interesse avrebbe guardato al completarsi della catena biologica con il ritorno dei grandi carnivori, cui spetterebbe l’onere di tener sotto controllo le popolazioni degli ungulati, che a primavera distruggono le giovani peccete e oltre una certa soglia si riempiono di malanni… Così, scrisse due articoli, su La Stampa di Torino, dal titolo inequivocabile: “Bentornato, lupo!”. Leggiamo: “Il lupo! L’avevo sentito molti anni fa tra le montagne dell’Albania ululare alla luna; anche nelle steppe della Russia in quell’inverno del 1941 a rimproverare la ferocia degli uomini. Su di lui abbiamo letto storie antichissime: miti, leggende, favole avventure… Vorrei incontrarlo, vederlo libero per le mie montagne a cacciare caprioli e cervi; quel giorno significherebbe che qualcosa di certo e di bello è avvenuto anche per noi. … Allora bentornato lupo, ben altri sono i lupi da cui dobbiamo difenderci!” (24.VII.1994). E di rincalzo, due anni dopo: “Nelle notti d’inverno li sogno. Sto in ascolto per sentire i loro richiami d’amore nelle notti della luna piena di febbraio. Ma lo so che rimane solo un desiderio, che nei miei boschi da più di cent’anni non ci sono più lupi. … Verrà, ritornerà anche il lupo! … Io non potrò sentirli o vederli nelle notti di febbraio, ma i miei nipoti, se resteranno quassù, potranno farlo anche per me” (1.I.1996).

Un’immagine dal film “Diga”.

E qui Mario fu profeta perché oggi i suoi nipoti, sull’altipiano di Asiago a un passo dal Trentino, se tendono appena l’orecchio possono sentire i lupi ululare alla luna quasi tutte le sere, e non è necessariamente un bel suono, viste le predazioni continue cruente ai danni di malghesi, allevatori, contadini, semplici proprietari di cani, che sono ormai nel novero delle centinaia, senza contare quello che accade nel folto del bosco, con il massacro di cervi, camosci, caprioli e mufloni, molto difficilmente quantificabile.

Cos’avrebbe detto, Mario, davanti a uno scempio del genere? Io per me non ho dubbi, perché nel grande concerto della natura, secondo Mario, sta sempre all’uomo dirigere l’orchestra: e non perché ne detenga chissà quale diritto naturale, beninteso, ma perché è l’unico in grado di farlo.

“Diga”, un bel film di Emanuele Confortin, pluripremiato al Trento Filmfestival 2021, porta la testimonianza a questo proposito di Renato Baldessarri, detto appunto “Diga”, pastore di Bellamonte: “Il lupo è sempre il lupo, anche delle favole. Il lupo ci cambia totalmente la vita, a tutti, nell’arco alpino. Noi, che siam qui con gli animali, la prima freccia è per noi. Però col tempo le seconde frecce le prendono gli altri. La montagna verrà abbandonata: col tempo, non subito. Perché i te dà un contentìn, te paga i animài, ma no l è i cénto euro che i te dà o i mili euro della vaca che i te paga, ma salta l sistèma de gestìr la montagna, de gestìr le malghe, de gestìr el territorio, col lupo presénte… Se te ha le pecore a cinquecènto mètri dal bàito, te tóca star là a ténderghe te la nébia, sóto la pióva, te va za a dormìr col pensiér che domàn matina no te sa quel che te cati. Se l ariva un branco come ghe n é arivà a mì tre volte, e dó volte l ariva de giórno, no ghè dotóri che parla che l ariva sól de nòte, parché mì no ghe credo pù… El ne rovina diése, quìndese, sbréga la panza, sbréga la pèle, e l ghe rovina la spala, e dopo el te le impianta là, e l va via. E alóra no i déve vegnìr a insegnarne a come se fa a viver la montagna, a noi che fémo sto laóro qua. Ma col témpo i se ne ascorzerà”.

E queste, le ragioni del pastore, del malghese, di chi in montagna lavora per vivere e per far vivere gli altri, sarebbero state – ne siamo certi – anche le ragioni di Mario.

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