“Mank”
Esercizi di stile. Un film di David Fincher, su Piattaforma Netflix
1940. Causa un incidente stradale che lo paralizza a letto, lo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz viene ospitato in una casa isolata del deserto californiano dove potrà concentrarsi sulla scrittura della sceneggiatura di “Quarto potere”, di cui Orson Welles sarà regista e principale interprete. È l’occasione per Mankiewicz di dare spazio alle sue memorie personali e scrivere la storia del cittadino Kane, alias il potente magnate della carta stampata William Randolph Hearst.
Questo il soggetto del film “Mank”, la cui tesi finale è che quella sceneggiatura è stata scritta dal solo Herman J. Mankiewicz, e non in collaborazione con Orson Welles.
Regista e sceneggiatore di “Mank”, David Fincher è ovviamente libero di inventare quello che vuole, ma una tale forzatura, quale che sia la sua incomprensibile motivazione (riscattare un geniale alcolista?), appare come un inutile ergersi contro un mostro sacro al solo scopo di stupire. Non è necessario essere esperti di cinema per obiettare che una personalità come Welles, al vertice delle sue libertà e del suo potere artistico realizzativo, non avrebbe mai accettato di dirigere un film che non avesse ampiamente contribuito a scrivere. La querelle del tutto artificiale rischia così di sminuire il ritratto di Mankiewicz e del mondo hollywoodiano dell’epoca che sono il vero fulcro di “Mank”.
Colto e arguto sceneggiatore profumatamente pagato dagli studios, di cui era allo stesso tempo istrionico lacchè e caustico censore, Mankiewicz conosce Hollywood dal suo interno e ne comprende l’essenza di specchio del sistema artistico, produttivo e mediatico degli Usa, dove contano il potere economico e politico, il business e l’interesse personale. Un mondo dove princìpi e ideali sono dati in pasto ai gonzi, mentre i capoccioni abdicano a qualsiasi moralità pur di mantenere il proprio dominio e privilegio, costringono ai loro loschi giochi, al conformismo e alla sottomissione onesti professionisti bisognosi di lavorare.
Ricostruendo vicende vissute e conoscenze personali in continui flashback (tecnica ampiamente usata in “Quarto potere”), Mank ci conduce sui set cinematografici, nei locali, alle feste e nelle regge dei potenti dove veniva invitato per il suo acume, il suo sarcasmo, il suo bacchettare e blandire. Il tutto fino alle elezioni del governatore della California del 1934-35, epoca in cui, grazie al disonesto dispiegamento della potenza mediatica di William Randolph Hearst e dei grandi papaveri della MGM, verrà assicurata la vittoria del conservatore rappresentante repubblicano contro il democratico/socialista candidato avversario. Alla faccia della crisi del ‘29, del New Deal e del presidente Franklin Delano Roosevelt.
Ed è questa la soglia limite che fa saltare l’equilibrio in cui si è mosso in quel mondo tra realismo opportunista e cinico sfruttamento della sua condizione di privilegiato. Quindi esagera, si fa cacciare e anni dopo cerca riscatto e giustizia scrivendo una sceneggiatura ambigua e pseudo-biografica sul suo ex amico e mecenate, campione dei caporioni del sistema Hearst.
Ed è bello, ancorché complesso, farsi portare in questo mondo mitico e smitizzato, attraverso una messa in scena di gran lusso, con fotografia in bianco e nero fortemente evocativa, costumi impeccabili, scenografie celebrative, recitazioni convincenti e dialoghi densi, brillanti e taglienti.
Ma per comprendere ed apprezzare veramente il film va visto almeno due volte, liberi da aspettative preconcette. Trattandosi di una produzione Netflix, e quindi visibile solo in streaming, suggerisco di tenere a portata di mano il tasto del pause, da attivare in tutte le occasioni in cui c’è da approfondire la conoscenza di un personaggio, l’importanza di una data o di un riferimento. Diversamente si rischia di perdere importanti sfumature del film. Il continuo andirivieni temporale dei tanti flashback non aiuta poi a cogliere sempre il senso della narrazione e in alcuni casi può anche risultare inutile e fastidioso. Esercizi di stile di un regista egomaniaco che con lo sconcerto vuole stupire e suscitare ammirazione.
Ma rivedendo il film da delusi piuttosto che da abbagliati, risulta interessante, complesso, contraddittorio e affascinante come il suo protagonista. Non possiede più piani di lettura, tecniche di ripresa innovative e altre qualità ancora sconcertanti di “Quarto potere”, ma se non ci si vuole per forza mettere a confronto, “Mank” è un buon film.
Nominato a non immeritati dieci premi Oscar, vedremo se riuscirà a vincere almeno quello alla sceneggiatura, unica vittoria per Mankiewicz e Wells delle nove nomination per “Quarto potere”.