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Stato di emergenza

Lo scorso marzo, con un Dpcm, sono state sospese quasi tutte le libertà della prima parte della Costituzione: uno strappo che si è rivelato provvidenziale e che però impone al più presto un intervento normativo. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Paolo Feltrin, a cura di Barbara Bertoncin
Giuseppe Conte

Quello che dirò riguarda la prima ondata del Covid e le sue risposte politico-istituzionali che, come sappiamo, sono state in Italia più efficaci rispetto ad altre parti del mondo. Da fine febbraio-inizio marzo il nostro paese è entrato in un terreno inesplorato, per descrivere il quale si è spesso fatto ricorso all’espressione “stato di eccezione” o “stato di emergenza”. Di cosa si tratta?

Lo stato di eccezione, che sembrava una categoria del passato, è tornato prepotentemente sulla scena. Nella storia ci sono eventi imprevisti e imprevedibili; è un fatto che tendiamo a sottostimare, preferendo un’idea della storia come un susseguirsi di progressi continui, lineari. Invece la storia va su e giù, è priva di una direzione lineare. Lo abbiamo già visto accadere tre o quattro volte in questi ultimi dieci anni: nel 2008-2011 con gli effetti della crisi finanziaria; poi con l’avanzata prima e la parziale ritirata, dopo l’elezione di Trump, della globalizzazione; adesso con la pandemia.

L’Italia è stato il primo paese occidentale a esserne colpito e al momento sembra essere quello che l’ha affrontata meglio. L’Italia, che era il primo paese per morti per milione di abitanti, oggi, mentre parliamo, è sceso al 13° posto. Come mai? Non sappiamo bene quale sia stato il processo decisionale che ha portato alla scelta dello strumento dei Dpcm e al blocco totale dell’8-9 marzo. Alcune cose però possiamo già dirle.

La prima: Conte, uno che non aveva mai fatto neppure il consigliere comunale, a un certo punto ha preso una decisione che avrebbe potuto far gridare al colpo di Stato. Se nelle settimane successive al 9 marzo l’infezione fosse risultata una banale influenza, Conte sarebbe finito al Tribunale dei ministri e infine cacciato in esilio con ignominia. Con un Dpcm si sono infatti sospese quasi tutte le libertà della prima parte della Costituzione: la libertà di movimento, di riunione, per non parlare del rinvio di elezioni. Il tutto con la blanda copertura di un Decreto legge di fine gennaio e degli indirizzi dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ovviamente ha contato anche la fortuna: se ci fosse stato un incapace o anche solo uno dubbioso che tardava a prendere decisioni... Pensiamo a com’è andata all’America di Trump o all’Inghilterra di Boris Johnson.

Un altro aspetto riguarda lo strumento usato, un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Io conosco bene questo atto amministrativo, ne ho una decina a casa, quelli con cui vengo nominato nelle varie commissioni per i collegi elettorali. È una normale letterina, l’ultimo degli atti amministrativi, meno di una circolare ministeriale: non passa per il Consiglio dei ministri, né per il Presidente della Repubblica, non va in Parlamento, non subisce i controlli della Corte dei Conti, in passato veniva utilizzato solo per le minutaglie. Ma ha il pregio di essere immediatamente esecutivo e inemendabile. Non sappiamo chi abbia suggerito questa scelta, ci dev’essere stato un gruppo di tecnici che ha consigliato questa opzione.

Le caratteristiche dello strumento inducono a riflettere anche sulla sua pericolosità, almeno a futura memoria. Lo strappo costituzionale di questi mesi, anche per il solo fatto di costituire un precedente, impone in un prossimo futuro di normare per via costituzionale la possibilità di decretare lo “stato di eccezione”.

In realtà, insieme all’emanazione dei Dpcm si sono attivati dei circuiti alternativi a quello governo-parlamento (che, non dimentichiamolo, è stato inabilitato a riunirsi per quasi due mesi).

Ogni Dpcm è stato preceduto da anticipazioni, fughe di notizie, rumors di stampa, così da consentire ad alcuni attori collettivi di svolgere un ruolo di supplenza parlamentare. Al termine di questo complesso percorso, di solito della durata di 15-20 giorni, e dopo un laborioso procedimento emendativo da parte delle associazioni di rappresentanza degli interessi e delle regioni, solo e soltanto dopo veniva firmato e pubblicato il Dpcm definitivo.

Questo ha permesso ad alcuni attori collettivi di svolgere un ruolo di supplenza parlamentare, strutturando una prassi tanto nuova quanto interessante.

Il primo circuito che in questa occasione si è attivato in maniera fortissima è il circuito governo-interessi organizzati. Se non ci fossero stati gli accordi sulla sicurezza del lavoro, la gente si sarebbe rifiutata, aveva paura. Se non ci fossero stati gli accordi sulla cassa integrazione e contemporaneamente i micro-accordi per gli artigiani, i commercianti, gli imprenditori, gli agricoltori, sarebbe stato impossibile garantire una vita ordinata.

Il secondo grande circuito è quello governo-regioni. Era quasi inevitabile perché, come sappiamo, l’unica grande competenza delle regioni è quella sulla sanità. C’è una prassi consolidata della Conferenza stato-regioni in materia sanitaria per cui co-decidono ogni anno la ripartizione dei fondi, la programmazione delle specialità e così via. C’è quindi una tradizione consolidata. Però mai come in questa occasione governo e regioni sono stati riuniti praticamente dalla mattina alla sera su materie che spaziavano dall’ordine pubblico alla sicurezza sul lavoro, sotto il coordinamento di una “cabina di regia” al Ministero degli affari regionali, diretta dal ministro Boccia.

Il circuito governo-interessi organizzati e quello governo-regioni consentivano di avere al centro feedback immediati su cosa capitava nei territori e nella società, permettendo di correggere e adeguare le misure a seconda dei differenti territori e contesti. Molti commentatori hanno sottolineato le polemiche, il bicchiere mezzo vuoto. Ma guardiamo a quello mezzo pieno: una certa dose di conflitto costituiva un fatto normale in un momento in cui andavano fatte emergere le differenze tra le regioni. A me pare che in questa occasione abbiamo assistito a un interessante esperimento di federalismo di tipo cooperativo e mi chiedo se, come per le rappresentanze degli interessi, non valga la pena istituzionalizzare di più questo metodo di coordinamento del centro con i territori.

Sugli altri due circuiti che si sono attivati (governo-esperti e governo-media) il mio giudizio è meno positivo. Nel caso del circuito istituzioni-esperti, la ragione è banale: gli esperti entrati in campo erano “ignoranti” di politica. Anche per fare l’esperto ci vuole del mestiere, bisogna conoscere i trucchi e i trabocchetti delle scena pubblica e molti, non conoscendoli, sono stati travolti dalla scena mediatica.

Rimane infine un giudizio a luci e ombre sui media, che hanno sicuramente svolto un ruolo di tramite, ma tendendo a enfatizzare gli elementi polemici del dibattito, trascurando gli elementi positivi dell’azione dei soggetti istituzionali e delle associazioni di rappresentanza.

La peculiarità italiana

Gli italiani sono sempre stati considerati insofferenti alle regole, indisciplinati, questa volta invece le cose sono andate diversamente. La domanda è se una delle ragioni di questa inattesa risposta non stia anche nell’esistenza di associazioni forti. La mia impressione è che ci sia una correlazione diretta tra capacità di risposta alla pandemia e forza delle associazioni. Molte di queste hanno mostrato una grandissima capacità di intervento, di ascolto e di rassicurazione. In 2/3 mesi hanno fatto miracoli. Allora, una delle possibili spiegazioni della reazione italiana è proprio la forza associativa. Paesi come Stati Uniti, Francia, ecc., con associazionismo debole, non hanno questa capacità di risposta immediata ai bisogni delle persone e delle aziende.

È anche un argomento contro la democrazia diretta: meglio che ci siano questi sensori capaci di filtrare e trasmettere in alto quel che si muove nella società. Non a caso la presenza di questi filtri sociali ha prodotto anche una bassissima conflittualità sociale. Se non ci fossero stati i sindacati, specie in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, semplicemente la gente non sarebbe andata a lavorare. Un direttore del personale di Lecco mi raccontava: “Avevamo la gente fuori dalla fabbrica che non voleva entrare. Sono arrivati i sindacalisti e, rassicurandoli, li hanno convinti”.

Un’altra questione interessante è lo spirito comunitario. Durante l’epidemia, abbiamo osservato come la convinzione che la società sia fatta di individui, come amava ripetere la Thatcher, passi in secondo piano, mentre riemerge l’idea di una società composta di comunità che cercano di realizzare un mutuo soccorso reciproco (l’esempio della solidarietà nei posti letto in terapia intensiva tra regioni limitrofe è uno fra i tanti).

Io, da iper liberale, sono abituato a pensare alla società come alla somma di liberi individui. Ma nell’emergenza abbiamo visto muoversi anzitutto le comunità, professionali: territoriali, politiche, religiose...

Accanto a questo, c’è stato il ritorno, del tutto inatteso, dello Stato, indipendentemente dall’ideologia: che tu sia di destra o di sinistra, è risultato plateale che il mercato non può risolvere un’emergenza sanitaria, un terremoto, l’eruzione di un vulcano. Le crisi di questi ultimi anni mostrano tutte un grande ritorno della grande politica statale. Cos’è il Recovery Fund se non un piano quinquennale di sovietica memoria?

Una riforma da fare

La gestione della pandemia ha messo in luce come le ultime riforme abbiano lasciato dei vuoti istituzionali nel rapporto centro-periferia. La legge Del Rio, una riforma-ponte in attesa della riforma costituzionale che doveva abolire le Province, si è rivelata sbagliata. Nell’emergenza c’era bisogno di un livello intermedio. Pensiamo ai piccoli comuni di montagna: da chi dovevano andare in caso di bisogno? La cosa più semplice sarebbe stata andare in Provincia: bene o male, la struttura delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi e larga parte della struttura dello Stato in periferia rimane a base provinciale.

È dunque indubbio che dobbiamo rimettere mano a questa materia; forse la soluzione più semplice è copiare il metodo usato per le Regioni a statuto speciale, dove la competenza sull’ordinamento degli enti locali, province e comuni, è tutta regionale. Questo permetterebbe di tenere conto anche della infinita diversità tra Nord e Sud.

Analogo discorso vale per le prospettive dell’autonomia. Mi chiedo se abbia senso andare avanti, come è stato fatto in questi 3-4 anni, con tentativi di devoluzione tutti centrati sulle “materie” a competenza esclusiva regionale. Anche alla luce di questi mesi val la pena ragionare se non sia più sensato porsi un problema di metodo più che di quantità di materie spostate a livello regionale. Forse andrebbe costituzionalizzato il sistema delle Conferenze Stato-Regione e della cabina di regia che durante il Covid hanno funzionato egregiamente.

Non possiamo sprecare quest’occasione. Per la prima volta dall’Unità d’Italia, il metodo usuale di governo dal centro è stato stravolto. Roma funziona da sempre per ministeri: dal centro la norma arriva per mille rami fino all’estrema periferia e le regioni hanno sempre dovuto lottare con le unghie e coi denti per ritagliarsi uno spazio in questo modello. Stavolta è successo il contrario: è stato come se ci fosse uno stato federale: le decisioni non le prendeva il ministero, ma la Conferenza stato-regioni sotto il coordinamento della cabina di regia. Allora, invece di chiedere l’autonomia delle materie con tante discussioni da legulei, perché non istituzionalizzare questo metodo e chiedere un vero federalismo cooperativo?

Il ritorno dell’Europa

Per chiudere con una nota positiva, abbiamo assistito a un’inattesa rilegittimazione del livello sovranazionale. Gli eurobarometri su come il Coronavirus ha cambiato la nostra predisposizione verso l’UE sono impressionanti. In Italia oggi il 77% è pro Europa e fino all’altro giorno c’era il 60-65% di contrari. Perfino nel Regno Unito sembra esserci per la prima volta una maggioranza di inglesi che vorrebbe tornare nell’Unione.

Sarebbe interessante capire come sia stato possibile che istituzioni considerate anchilosate, lente, pachidermiche, d’un colpo siano riuscite a reagire tempestivamente e in modo adeguato. Una spiegazione possibile è che quando l’acqua arriva al sedere di tutti... Cioè, finché si trattava solo della Grecia o dei Pigs si poteva agire in un modo, ma quando si arriva al mal comune... Di certo questa è un’occasione storica per l’Europa e le sue istituzioni.

* * *

Paolo Feltrin, già docente di Analisi delle politiche pubbliche all’Università di Trieste, ha insegnato presso le Università di Firenze e Catania e presso la Scuola superiore di pubblica amministrazione di Roma. È coordinatore dell’Osservatorio elettorale della Regione Veneto.

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