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“Libri da ardere”

Se la cultura è sacrificabile

“Libri da ardere”

Per l’emergenza Coronavirus da ormai più di un mese sono chiusi i teatri e gli altri luoghi di cultura e socialità. In questo periodo di necessaria astinenza, mi è capitato più volte di ripensare ad uno degli ultimi spettacoli a cui ho potuto assistere, lo scorso 23 febbraio al Teatro Sociale di Trento. Sto parlando di “Libri da ardere”, produzione firmata Teatro dell’Elfo e La Corte Ospitale che mette in scena l’unico testo teatrale della scrittrice belga Amélie Nothomb. Un riallestimento, in quanto la storica compagnia milanese già nel 2006 ha frequentato questo dramma.

L’eco risonante di questa rappresentazione è dovuta in prima battuta al messaggio profondo di una drammaturgia ben scritta nell’ormai lontano 1994 e tradotta altrettanto bene da Alessandro Grilli.

La vicenda si svolge in un tempo e in una città dell’Est Europa non meglio precisati. Tutti gli indizi rimandano al conflitto bellico in Bosnia-Erzegovina e a Sarajevo, ma la scelta dell’indefinitezza è letterariamente impeccabile. C’è la guerra ed è inverno. I bombardamenti e il gelo sono incombenti e minacciosi. In questo contesto apocalittico, tre personaggi cercano di sopravvivere: un professore universitario, il suo assistente Daniel e Marina, la giovane amante di quest’ultimo. Nella casa del primo, i tre cercano riparo dall’assedio della guerra e soprattutto del freddo. Per fare fuoco al fine di riscaldarsi, però, è rimasto ben poco: oltre a qualche sedia, soltanto i libri, ultimi appigli rimasti per continuare a sentirsi esseri umani e non solo bestie in attesa di essere uccise. Ma in un libro “c’è qualcosa che valga una bella fiammata dentro la stufa?”, si chiede Marina, che propone di farne combustibile. Una proposta che all’inizio sembra irricevibile e dissacrante. Ma che di fronte alla morsa del freddo, della fame e della guerra, diventa l’unica strada percorribile. Si origina così uno scontro fisico e di idee nel quale le passioni più basse e l’istinto di sopravvivenza esacerbano la convivenza tra i personaggi e mettono alle strette l’umanità e la bellezza di cui i libri sono veicolo.

Detto del testo, se lo spettacolo funziona è naturalmente per l’innegabile bravura degli interpreti. Per la formidabile intesa scenica tra Elio De Capitani (come quasi quattordici anni fa nei panni del professore), Angelo Di Genio (Daniel) e Carolina Cametti (Marina), diretti dall’intelligente regia di Cristina Crippa.

Elio De Capitani, in splendida forma, dà vita ad un professore cinico e disincantato. Un accademico che dimostra di non credere nei libri che esaltava durante le lezioni, dandosi invece a letture di cui diceva male, cercando a fatica di mantenere la sua passata dignità e svelando tutta la sua ipocrisia. Tanto da risultare più sincero quanto più, per la barbarie della guerra, scivola verso il nichilismo e la bestialità. De Capitani è abile a rendere i chiaroscuri del personaggio: fanno sorridere amaramente i suoi sprazzi di autoironia, le prediche, le freddure compiaciute, gli eccessi di malinconia.

Angelo Di Genio interpreta con vigore un assistente cocciutamente idealista. Anche in tempi di guerra, Daniel pare aggrapparsi alla cultura: per riscaldarsi usa le tubazioni dell’università, rimane sbigottito nel vedere il suo maestro – per cui prova una devozione che maschera disprezzo – dilettarsi con cattiva letteratura, è il più infuocato quando si bruciano libri. Il suo idealismo si rivela però un atteggiamento ipocrita: difende strenuamente una cultura intellettuale che ha ben poco di umano.

Tutto al contrario di Marina, cui Carolina Cametti dona una carica di rabbiosa disperazione. Dietro la proposta dissacrante di bruciare libri allo scopo di ricavarne calore per combattere la sua guerra contro il freddo (ripete ossessivamente la frase “L’inferno è il freddo” di Georges Bernanos), la studentessa si dimostra l’unico personaggio capace di dare un valore umano alla letteratura. Non è un caso che voglia salvare l’ultimo volume rimasto perché “è la sola bellezza che ci sia rimasta”. Non è un caso che, quando il professore, lucidamente, lo dà infine alle fiamme, lei esca di casa per fare una passeggiata, il che equivale ad esporsi ai nemici e farsi abbattere come un animale.

La regia di Cristina Crippa rispetta e valorizza il testo, lavorando sottilmente sulla costruzione dei caratteri e sui rapporti instabili che intercorrono tra loro. Convince la scelta di far scandire in terza persona ai personaggi le didascalie: espediente utile a muovere una situazione pressoché statica. Stesso obiettivo ha il progressivo sgombero dell’ambiente scenico, inizialmente colmo di libri e man mano svuotato, materialmente e immaterialmente. Finché il rogo dell’ultimo volume sancisce la definitiva sconfitta, il definitivo inverno dello spirito, mirabilmente reso dalla neve che entra dalla porta.

Uno spettacolo come “Libri da ardere” trasmette l’importanza della cultura come antidoto all’inaridimento dell’anima. Beninteso, sempre che non sia esercizio sterile, ma carica umana.

Nel suo senso pieno, la cultura è, anche e soprattutto in tempi di guerra, un bene mai sacrificabile. Come scrive Marguerite Yourcenar in “Memorie di Adriano” (1951), “fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”.

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