Se muoio io finisce il mondo?
Siamo lentamente passati da un contesto in cui il singolo era quasi insignificante ad uno spiccato egocentrismo
Nel dicembre scorso alla Camera dei deputati è stata presentata una proposta di modifica costituzionale per l’inserimento nella nostra Carta del riconoscimento del diritto alla felicità, sulla falsariga di quanto affermato nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti.
I pensieri che questo fatto ha suscitato in me, si sono immediatamente collegati con le considerazioni che spesso propongo nelle mie conversazioni per l’Università della terza età su temi inerenti la salute.
In quelle occasioni richiamo il fatto che nella Conferenza internazionale di Alma Ata del 1978 l’Organizzazione mondiale della Sanità sancì una nuova definizione di salute, descritta non più come semplice assenza di malattia, ma come uno “stato di completo benessere sul piano fisico, psicologico e sociale”. Si trattò di un passo avanti importante, positivo e ormai irrinunciabile, che permise di includere tra i determinanti della salute aspetti riguardanti la qualità delle relazioni umane, la tutela dei diritti fondamentali delle persone, gli equilibri ecologici e ambientali, che un tempo afferivano esclusivamente ad altri capitoli del vivere comunitario e dell’operare della politica e delle istituzioni. E tuttavia invito sempre chi mi ascolta a considerare questa definizione come un indicatore di direzione, come una proposta di obiettivi cui tendere e a non assolutizzarla in riferimento alla vita di ciascun individuo.
Quella definizione, presa alla lettera, descrive infatti uno “stato di grazia” che praticamente nessuno di noi può dire di godere in modo pieno e permanente. Assomiglia, appunto, ad una descrizione della felicità. Con il rischio, per contro, di arrivare a dover ammettere che nessuno di noi gode di completa salute, il che mi sembra francamente eccessivo. Facendo poi leva sui riflessi giustizialisti e risarcitori, tutt’altro che assenti nella nostra società, si arriverebbe a sostenere che se di quel diritto non riesco a godere appieno, la colpa dev’essere di qualcuno o, almeno, mi spetta un risarcimento.
Purtroppo il contesto socioculturale e valoriale in cui siamo immersi porta ad esasperare (sono ormai molti a denunciarlo) una visione individualistica della vita e del mondo, che porta ad un egocentrismo sempre più spiccato. Almeno nelle società occidentali, siamo lentamente passati da un contesto in cui la vita del singolo individuo era quasi insignificante, il valore della sua esistenza meno importante di molti altri aspetti, ad una affermazione/liberazione/titolarità di diritti… sempre maggiore.
Cosa buona, doverosa e giusta, ovviamente, ma che sta portando, mi pare, ad una “ipertrofia dell’io” tale da farlo diventare l’unico metro di giudizio della realtà accettabile. Fino a condurci a vivere pensando, o “sentendo”, che “io sono il mondo e il mondo sono io” e quindi “se sto male io, sta male il mondo” e “se muoio io, finisce il mondo”. Cosa accade fuori di me, cosa succederà dopo di me, non è così importante o, per lo meno, mi interessa poco.
Nessun rimpianto, è chiaro, per epoche in cui gli individui, specialmente alcune categorie di individui, erano schiacciati e violentati, nessuna nostalgia per i tempi in cui “chi per la patria muor vissuto è assai”, ma solo l’invito a riflettere se non si stia perdendo troppo di una dimensione di appartenenza collettiva che, sola, è in grado di dare un senso e una prospettiva alle nostre vicende personali. Una dimensione (dalla famiglia, al futuro dei giovani, alla comunità cui appartengo, all’umanità intera …) alla quale posso pensare di “sacrificare” almeno una parte di me, rinunciando a qualche quota di benessere, di ricchezza, di realizzazione immediata.