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QT n. 4, aprile 2020 Cover story

Dalla peste al covid 19

La lunga storia delle epidemie. Parte prima.

Rodolfo Taiani
Un ospedale militare durante l’epidemia di “spagnola” del 1918-1920.

Il termine “epidemia” non era utilizzato in passato con la stessa valenza che le è stata assegnata grazie alla “rivoluzione› batteriologica” degli anni ‘70/’80 dell’Ottocento, quando, individuato il ciclo della malattia infettiva, si è chiarito il meccanismo del contagio. Per i greci epidemia significava qualcosa di incombente (da epi e demos, cioè “sopra il popolo”), fonte di assillo e paura. Nella storia, naturalmente, si sono susseguite molte forme di epidemie: fra le prime di cui si ha testimonianza vi è la cosiddetta peste di Atene descritta da Tucidide nel 430 a. C. In Tucidide, però, come sarà per i secoli successivi, peste indicava una generica malattia grave e diffusa. Quella di Atene non va pertanto confusa con la peste che imperversò ripetutamente in Europa a partire dal XIV secolo, spopolando interi territori, né con la “peste castrense”, così detta perché colpiva soprattutto gli eserciti, corrispondente al tifo esantematico o tifo petecchiale. Fu solo nel 1896, infatti, che la peste fu associata incontrovertibilmente a una sola manifestazione, ossia a quella osservata da Alexandre Yersin a Hong Kong, dove individuò nel batterio yersinia pestis il suo agente morbigeno.

L’elenco documentato di altri episodi epidemici – e pandemici – si arricchisce via via in età moderna e contemporanea.

È noto come le prime grandi esplorazioni e i viaggi intorno al mondo abbiano favorito in termini moderni l’import-export di nuovi agenti batterici. È il caso della sifilide, importata in Europa dagli equipaggi che navigarono con Cristoforo Colombo alla scoperta del Nuovo Mondo, ma contestualmente anche delle malattie esantematiche (morbillo, scarlattina, rosolia) esportate dall’Europa verso le nuove terre di conquista.

Altra epidemia, che travolse l’Europa nel corso del Sei-Settecento, fu il vaiolo, causa di cecità ancor prima di decesso. Se le pustole, infatti, colpivano le palpebre e poi la cornea, la vittima poteva anche sopravvivere, ma perdeva la vista.

A fine Ottocento esplode invece la tubercolosi, che flagellerà l’Europa fino alla metà del secolo successivo. La storia della TBC è un caso emblematico di un’epidemia che si diffonde non a causa delle mutazioni di un bacillo, ma per via dei cambiamenti indotti dalle trasformazioni socio-economiche e socio-politiche. La crescente concentrazione di individui imposta da una diversa organizzazione del lavoro, dell’istruzione e dell’aggregazione abitativa fu terreno fertile di trasmissione.

La peste di Milano del 1630 in una illustrazione dei “Promessi sposi”.

Nel Novecento l’epidemia più grave è stata sicuramente la cosiddetta “influenza spagnola”. Il ceppo virale responsabile della sua insorgenza fu l’H1N1, lo stesso dell’influenza “suina” che ha imperversato nel 2009. La scoperta è stata fatta nel 1997 da un gruppo di ricercatori statunitensi che ha potuto confrontare i corredi genetici dei virus causa dell’influenza suina e della spagnola grazie a un campione di DNA prelevato nel 1997 dal corpo ibernato di una donna, rinvenuto in Alaska, morta proprio a causa della spagnola.

Non si conosce esattamente il numero di vittime della “spagnola”: taluni hanno calcolato che, tra il 1918 e il 1921, i morti siano stati 21.642.000, ma altri ipotizzano una stima pressoché quintupla (cento milioni).

Tra i Paesi europei maggiormente colpiti figurano la Russia con 450.000 morti, seguita a ruota dall’Italia con almeno 375.000 – ma la stima sale in altre fonti a 600.000, quanto i caduti in guerra – a fronte di cinque milioni di colpiti e di una popolazione, nell’inverno del 1918, di trentasei milioni di abitanti. L’aleatorietà dei dati è legata sicuramente a un sistema di rilevazione ancora imperfetto, ma assai più allo stato di guerra e alla conseguente volontà d’impedire, almeno nei paesi belligeranti, la propagazione di notizie che avrebbero potuto incidere negativamente sul morale delle truppe e delle popolazioni già stremate dalla guerra.

Il 9 dicembre 1979, quando l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) poté annunciare ufficialmente l’eradicazione completa del vaiolo, presentata dall’allora direttore generale Halfan Mahler come un “trionfo dell’organizzazione e della gestione sanitaria, non della medicina”, questo passaggio fu salutato con entusiasmo e vissuto come una sorta di illusione collettiva; si pensò, infatti, di aver realizzato un vecchio sogno, quello di aver sconfitto ogni malattia infettiva. Le successive emergenze legate ad AIDS (prima individuazione della malattia nel 1981), SARS (2002) e influenza suina (2009) hanno ricordato a tutti quanto la realtà fosse ben diversa.

La storia delle epidemie dimostra, se ce ne fosse bisogno, che la nostra specie non è al centro dell’universo. Anche se continuiamo a mantenere una visione antropocentrica, di fatto vige la logica darwiniana e gli esseri più grandi devono comunque lottare con quelli più piccoli, microrganismi compresi. Spesso i nuovi agenti infettivi si diffondono perché alcuni animali sono in grado di incubarli favorendone le mutazioni. L’animale diventa cioè una specie di crogiolo in cui il virus può modificarsi. In tal modo si verifica il cosiddetto “salto interspecifico”, con la trasmissione del virus dalla specie animale alla specie umana. È stato il caso della influenza aviaria e di quella suina ed è, sembra, il caso del COVID19, nonché uno degli aspetti che determinano la pericolosità dell’epidemia.

La paura

Pieter Bruegel il Vecchio, Trionfo della Morte - particolare (1562).

Come nel passato, un altro aspetto accompagna le ondate pestilenziali ed è la paura. La paura afferisce alla sfera dell’emozione, non a quella della ragione, e questo implica che non si diffonde un’epidemia senza che si cerchi in qualche modo un colpevole. I più famosi sono gli untori della peste narrata da Manzoni (1630), ma prima di loro molti hanno trovato la morte perché accusati di diffondere il morbo: gli ebrei, le streghe, i “diversi” in generale. Oppure si pensava che la peste fosse inviata da Dio per castigare gli esseri umani. La divinità puniva ma era anche benefica: il Dio che permette la morte a don Rodrigo è lo stesso Dio che salva Agnese e Lucia. Altri presunti fattori di epidemia erano ricercati nel concatenamento di particolari eventi astrali, come eclissi o comete.

Per comprendere come l’umanità abbia vissuto nei secoli la paura delle epidemie è utile però guardare al concetto di contagio. Fino al Cinquecento si pensava che la malattia fosse causata da “miasmi” da “esalazioni nocive” o da “vapori putridi” che ammorbavano l’aria. Solo in seguito fu sviluppato il concetto, di contagio. La sua prima elaborazione teorica appartiene al medico veronese Girolamo Fracastoro, che nel 1546 sostenne nel “De contagione et contagiosis morbis” l’ipotesi che la trasmissione interumana di talune malattie avvenisse attraverso il passaggio dalla persona malata a quella sana delle spore o semi (seminaria) di tanto minuscoli quanto invisibili esseri viventi.

Pressoché contemporaneamente in Italia - siamo fra il XV e il XVI secolo - iniziano a essere istituiti degli organi (uffici di sanità, tribunali di sanità o magistrati di sanità) deputati a predisporre e far rispettare le misure per evitare il diffondersi delle epidemie. Come? In vari modi: si vietavano le occasioni di affollamento, i mercati, le processioni, le città venivano isolate e si istituivano le quarantene, i cordoni, i lazzaretti, le contumacie. Esistevano anche le bollette di sanità, dette “patenti di salute”, che erano rilasciate a individui sani e permettevano loro di circolare liberamente.

Tutto questo a premessa dell’odierno dibattito sul COVID19 che tanto spaventa. C’è una sorta di drammatizzazione collettiva in questa angoscia da contagio e c’è anche una certa enfasi propiziata dall’industria farmaceutica, la quale ha il merito di produrre i medicinali che curano, ma al tempo stesso è attenta a incrementare il volume dei propri affari. Non è una novità affermare che produzione di salute e produttività economica non sempre vanno di pari passo. In un inestricabile groviglio di motivazioni pubbliche e private finiscono così per contrapporsi comportamenti e atteggiamenti riflesso di rappresentazioni e paure ataviche. Insomma, la pandemia COVID19 come una sorta di ritorno a un passato che non si è lasciato del tutto dietro alle spalle.