Prima sono venuti i balconi
Applausi, canti, bizzarre attività casalinghe... In nome del “canta che ti passa” gli italiani hanno scatenato la loro creatività.
Chiusi improvvisamente in casa, gli italiani hanno deciso di cantare. Perché è sempre stato così: tutti hanno riscoperto che “canta che ti passa” non è solo un detto della nonna. In quel momento, che ora appare già un tempo passato, gli italiani dovevano scacciare la paura. Ma erano soli, separati, disconnessi. E allora si sono inventati i balconi, l’unico luogo fisico in cui potevano ancora in qualche modo connettersi.
E tutti insieme hanno deciso di cantare dai balconi. La prima cosa che hanno cantato? L’inno di Mameli. Curioso scatto per un popolo che spesso guarda l’orgoglio patriottico come una brutta malattia e preferisce autoflagellarsi.
Il canto dai balconi ha, in qualche modo, riannodato le connessioni. Quello era lo spazio concesso alla vita collettiva al tempo del virus e quello gli italiani si sono presi.
Lo hanno usato anche per dire la loro: l’applauso sincronodel 14 marzo in tutta Italia per ringraziare medici e infermieri ha fatto scuola e gli inglesi ci hanno copiato qualche giorno più tardi (dopo che il loro premier ha capito di dover seguire il nostro esempio e chiudere tutti in casa, pena un quasi genocidio nazionale).
Poi hanno continuato per una settimana ad esibirsi in cori e coretti, più o meno locali, con gli inni nazionali non ufficiali: Azzurro di Celentano, Rino Gaetano e altri ancora. Canzoni nazional-popolari.
La musica corale, spesso sottovalutata negli ultimi anni, è apparsa improvvisamente per quello che è: la nostra voce collettiva.
E allora anche gli artisti hanno deciso di farsi sentire. Ma, poiché non vivono tutti nello stesso condominio, hanno usato la rete.
I primi sono stati i cantori dell’International Opera Choir di Roma. Si sono organizzati: ognuno ha registrato la propria parte sul telefono stando in casa, hanno mandato i file e poi qualcuno ha messo in sincrono le voci e le ha montate. Il risultato è stato un “Va’ pensiero” commovente. Copiato anche questo.
Dopo qualche giorno l’Orchestra Filarmonica di Rotterdam, divisa ma insieme, ha suonato l’inno alla gioia (più o meno l’inno nazionale europeo, se l’Europa esisterà ancora dopo tutto questo).
A quel punto, com’era prevedibile, l’espressione collettiva della paura e della speranza si è riversata sulla rete. Non necessariamente con manifestazioni di alto valore artistico.
Come la clip della giovane ben fornita che si toglieva lascivamente un giubbotto di pelle nera sotto il quale c’era solo un messaggio: “State a casa”, scritto direttamente sulla pelle. Sperando che i maschietti guardassero il messaggio e non ciò su cui era scritto.
Le microclip e i meme ironici sono diventati un passatempo formidabile. Non solo per chi li guarda. Anche farseli in casa e inviarli agli amici ha contribuito a sdrammatizzare una situazione umana che è oggettivamente innaturale.
Ognuno ha ripreso i suoi panni. Il fanatico di montagna che in giacca a vento, scarponi, zaino e binocolo, scala le sedie e i mobili di casa è solo uno degli esempi.
Dobbiamo aprire qui una parentesi sulle famose corsette. Molta gente che non aveva mai mosso il culo dal divano si sarebbe scoperta improvvisamente fanatica dell’attività sportiva, i primi giorni. Una scusa, subito stoppata, per non stare chiusi in casa. Ma va detto che tra questi ci sono coloro che davvero se non corrono stanno male. E qualcuno ha toccato il limite: come il tizio che ha corso la maratona… sui sette metri di lunghezza del balcone di casa. Forse alla fine gli girava un po’ la testa, ma certamente verrà citato nel Guinness dei primati.
C’è l’incontenibile forza della vita sotto tutto questo. Espressa da ognuno secondo le sue capacità e secondo i suoi bisogni. E ci sarà, ci auguriamo e crediamo, anche una più acuta coscienza che stare fuori e stare insieme è un’esigenza primaria dell’essere umano.
Ma c’è anche un altro sottoprodotto di questa orribile vicenda a cui dovremo prestare attenzione: l’immaginazione.
I corpi ristretti hanno cominciato a immaginare. Fare come se, dicono i bambini. Fare come se si fosse sulla cima di una montagna con gli sci ai piedi (solo per cadere dal divano), fare come se si stesse suonando il violoncello all’aria libera (scoprendo alla fine che le montagne innevate sono un enorme poster sul muro del soggiorno).
Immaginare. L’altra potentissima forza del genere umano che in questi ultimi anni era stata piratata dai torrenti impetuosi di immagini che vengono dagli schermi e che avevano soffocato la nostra capacità innata di immaginare. Quella che ci ha portato a essere quello che siamo e che da sempre è il motore ogni evento sociale e civile.
E allora forse - ma lo so che è solo una speranza - uscendo da questa esperienza dolorosissima ci scopriremo di nuovo capaci di immaginare. Che è con l’immaginazione che cambiamo il mondo.