Torniamo a curare le foreste
La tempesta Vaia ci offre suggerimenti e preziose opportunità. Cerchiamo di coglierli.
Un anno fa le Alpi orientali venivano colpite dalla tempesta Vaia. Un evento imprevisto, doloroso, che ha portato parte della società a riflettere seriamente sui cambiamenti climatici in atto; il mondo politico invece, pur parlando di sostenibilità e qualità, non ha fatto seguire alle parole alcuna conseguenza decisionale, seguendo le vecchie tracce dello sviluppo dei tempi passati: industrializzazione, grande viabilità, turismo della neve. Le categorie economiche, escluse lodevoli eccezioni, non si smuovono dalle loro rivendicazioni basate sull’ulteriore consumo di suolo.
Vaia ha comunque consentito nuove valutazioni sulla gestione delle foreste: dal doloroso evento possono nascereopportunità di investimento in nuovi lavori e nel recupero di occupazioni che con superficialità erano state trascurate, purtroppo, anche dall’ente pubblico. I cambiamenti climatici, lo si voglia comprendere o meno, stanno imponendo una veloce modifica del nostro modo di vedere e gestire il territorio. Chi non lo farà, come sembra avvenga in tutta Italia, subirà in tempi brevi conseguenze ancor più pesanti di quanto già non sta avvenendo. Ma rimaniamo nel contesto forestale.
Come accaduto nel passato recente in tutta Europa, questi eventi violenti hanno aperto anche in Italia nuove opportunità per la ricerca scientifica. Se si supera l’occasionalità o la virtuosa attenzione offerta da qualche singolo ente, in Italia sembra si sia trascurato il tema, perlomeno non si è costruita una regia di intervento pianificata a livello nazionale. Ognuno sta facendo per sé. Altrove invece, la futura gestione delle foreste è diventato un laboratorio di ricerca scientifica, sostenuto da monitoraggi intensi e studi approfonditi, un laboratorio naturale che mai è stato tanto vasto e variegato. Le università - siamo ancora in tempo - possono essere coinvolte in monitoraggi e ricerche che approfondiscano alcune conoscenze già note, ma destinate a modificarsi rapidamente a causa dei mutamenti del clima. Pensiamo allo studio degli insetti e dei parassiti animali e vegetali del legno, alla necessità di approfondire la decomposizione della necromasssa che rimarrà sul territorio, decomposizione che avviene anche tramite il lavorio incessante di muffe, muschi, funghi. È un tema che non è presente nella percezione di massa della complessità di una foresta: eppure i processi di decomposizione sono più strategici che non la rinnovazione.
E ancora: si possono seguire i percorsi della rinnovazione naturale nelle diverse esposizioni climatiche e nelle diverse fertilità dei suoli, o cosa avviene dove la rinnovazione naturale, per motivi di sicurezza dei versanti, verrà affiancata da quella artificiale. Si possono anche studiare le modifiche comportamentali della fauna selvatica, sia quella di interesse venatorio che di quella definita minore, come l’avifauna o il complesso mondo degli insetti, e le interazioni fra questa fauna e il mondo vegetale che rifiorirà, anche in tempi molto brevi.
Un altro capitolo strategico riguarda la pianificazione della gestione delle foreste e dell’alpe pascoliva di alta quota. Finalmente si potrebbe arrivare alla tanto attesa (da 50 anni!) pianificazione di bacino, che risponda alle richieste provenienti dalle diverse certificazioni internazionali nella gestione sostenibile delle foreste (FSC e PEFC): solo con un ragionamento di ampio respiro sul futuro dei boschi è possibile riprendere i piani di assestamento delle diverse proprietà pubbliche e private, avere una coerenza naturalistica e produttivistica delle gestione dei boschi. Questa necessità deriva anche dalla constatazione della maggiore frequenza di eventi catastrofici e dal fatto che i tempi di ritorno tanto rapidi sono dovuti ai cambiamenti del clima. Questo passaggio ci porterà a rivedere le mappe del rischio idrogeologico, valanghivo e auspicabilmente a superare il clientelare e diffuso strumento della deroga.
Ritornando ai valori naturalistici, prendendo atto che fra tutti gli ecosistemi, comprese le praterie alpine e gli ambienti umidi, la foresta è quello che ci dà le maggiori e più preziose istruzioni ecologiche e che è in assoluto l’ecosistema più strutturato e resiliente, sarà necessario ritornare a prestare attenzione, quindi a diffondere, la conservazione delle foreste vetuste, a difendere le piante monumentali, a riprogrammare in senso fortemente estensivo le foreste destinate unicamente alla protezione. Come avviene in Svizzera.
Sempre nella pianificazione, di bacino e locale, si dovranno stabilire quali superfici andranno recuperate a pascolo o prato, e come gestirle superando l’attuale improvvisazione e l’assenza di controlli qualitativi. Nel settore del potenziamento della biodiversità si dovranno stabilire regole precise nella gestione dei prati aridi, di quelle superfici di alta quota che ancora presentano alti indici di biodiversità e unicità naturalistiche oltre che paesaggistiche, delle dimenticate torbiere. Se si vuole investire in questi saperi e nelle novità che ci vengono aperte, il territorio colpito da Vaia sarà un laboratorio che potrà offrire lavoro di altissimo profilo culturale. Anche a livello internazionale.
Recuperare il tempo sprecato
Ma non solo; è anche necessario riprendere subito quanto perduto in questi decenni nel lavoro manuale. In queste ultime tornate legislative, partendo dalle gestioni di Dellai in poi, si è inciso in modo determinante nel minimizzare il ruolo dei controlli del territorio, riducendo drasticamente il personale delle stazioni forestali e gli organici dei custodi forestali, mentre si procedeva a una incredibile semplificazione delle normative in termini di gestione del territorio.
Ma quel che è più grave, si è ridicolizzata su tutto il territorio provinciale la presenza degli operai stagionali forestali provinciali: siamo a riduzioni di manodopera con cifre superiori al 50% in solo un decennio. È necessaria quindi una drastica inversione di tendenza, sostenuta dalle forze sindacali e da quella vasta area di opinione che è stata scossa dalla violenza di Vaia.
Cogliamo questa opportunità ponendoci una domanda che non ha nulla di retorico: fra dieci anni chi lavorerà ancora nel bosco? L’economia turistica, autoreferenziale, ci ha fatto dimenticare che il territorio va coltivato, anche se sono arrivati macchinari imponenti (che pongono importanti problemi ecologici nella gestione dei soprassuoli forestali); ma la mano dell’uomo, il badile e il piccone, rimangono attrezzi fondamentali. Come avveniva fino a vent’anni fa. Per fare cosa?
È bene sapere che i territori feriti dalla tempesta avranno bisogno di cure (il termine è oltremodo appropriato) giornaliere per oltre un decennio. Quindi bisogna reinvestire negli orti forestali abbandonati, riportandovi personale specializzato, anche perché nella piantumazione artificiale bisogna utilizzare sementi e quindi piantine autoctone e non importate dai grandi vivai privati austriaci o tedeschi, dove particolari specializzazioni genetiche risultano diverse dalle nostre, vallata per vallata.
Serve personale per piantumare i versanti che presentano rischi idrogeologici e valanghivi. Questo personale dovrà poi seguire i nuovi impianti per diversi anni, sostituendo le piante che muoiono (circa il 50%) e togliendo erbe e arbusti a quelle che avranno resistito. Si dovrà mantenere una viabilità oggi devastata (1.600 Km di strade forestali da recuperare, oltre alla gestione delle nuove, per un totale di oltre 5.000 km. di strade), gestire i sentieri, intervenire nei diradamenti, tutte cose ormai da anni divenute pratica marginale nella gestione boschiva.
Dovremo anche lottare per alcuni anni per limitare i danni dai parassiti quali il bostrico: è bene quindi che le amministrazioni pubbliche investano in personale boschivo locale riprendendo la virtuosa pratica delle assunzioni e potenziamento delle squadre boschive comunali o gestite in forma associativa fra più comuni. La cura del bosco - finalmente se ne sono accorti anche gli operatori turistici - è fondamentale nella offerta ricreativa delle Dolomiti; sentieri abbandonati, bosco produttivo non gestito, strade erose da piogge sempre più forti, incidono in modo negativo nella offerta turistica.
E questo complesso impegno deve essere sostenuto da volontà politica, sia a livello provinciale che comunale, ritornando a una forte attenzione verso il patrimonio forestale, con amministratori che finalmente ricomincino a governare anche quanto si trova al di fuori degli abitati e delle piste da sci: e per fare tutto ciò occorre avviare un investimento che riporti al lavoro in ambito rurale qualche centinaio di operatori.
Se Vaia ci presenta questa cornice tanto ampia di opportunità, è evidente come anche in Trentino si debba recuperare l’intera filiera del legno, arrivando ovunque possibile a produrre in valle, o almeno in provincia, gran parte del prodotto finito, sia quello necessario all’edilizia che sta investendo nelle “case clima” e nelle case in legno, che nelle diverse espressioni dell’artigianato.
Cominciando dalla Provincia: invece di imporre ai versanti strutture di protezione in metallo e cemento, sarebbe doveroso utilizzare il legno, come avviene in modo diffuso oltralpe, in modo che sul territorio rimanga il massimo possibile del valore aggiunto proveniente dal patrimonio forestale.
Allargando lo sguardo all’intero paese, e anche pensando alle montagne abbandonate dell’Appennino in particolare, o del bellunese, era bene che un evento di portata tanto devastante quale è stata Vaia, venisse gestito da una regia nazionale, per portare poi la ricaduta di questo insieme di opportunità all’interno di una pianificazione del lavoro in montagna di valore nazionale.