Sanzioni USA a Iran e Russia: un boomerang
E l’Europa? Succube degli americani.
All’inizio di questa estate molti avrebbero scommesso che Iran e Stati Uniti sarebbero giunti alla finale resa dei conti in poche settimane. Erano accaduti vari “incidenti” nello stretto di Hormuz, dall’attacco ad alcune petroliere sino all’abbattimento di un drone americano da parte di un missile iraniano. Ciascuno di questi incidenti, la cui responsabilità veniva immediatamente addossata da americani e israeliani all’Iran, sembrava un perfetto casus belli. Nel caso poi del drone americano abbattuto gli iraniani stessi avevano immediatamente rivendicato l’operazione come un atto di legittima difesa. Nel frattempo una potente flotta americana si era avvicinata alle coste iraniane e Netanyahu non cessava di aizzare gli americani a dare finalmente una dura lezione all’Iran. Eppure… lo scontro alla fine non c’è stato.
Qualcuno dice che i generali del Pentagono hanno messo in guardia Trump dall’iniziare nella regione una guerra avventata i cui esiti nessuno avrebbe potuto controllare. Altri commentatori hanno sostenuto che Trump è in fondo un mercante, abituato a trattare duro e a esercitare la massima pressione per indurre l’avversario ad abbozzare, ma non avrebbe mai pensato seriamente ad attaccare l’Iran, a dare inizio a una guerra a un anno dalle elezioni americane. Secondo altri commentatori, l’abbattimento del sofisticatissimo drone americano con un missile di fabbricazione iraniana avrebbe fatto la differenza: non solo l’Iran aveva inequivocabilmente segnalato che avrebbe risposto colpo su colpo, ma aveva fornito anche una dimostrazione convincente della preparazione delle sue forze di difesa. Certamente, s’è detto, in una guerra con gli USA e Israele l’Iran soccomberebbe, ma, ecco il punto, non prima di avere venduta cara la pelle. E, soprattutto, aggiungono altri osservatori, non prima di avere incendiato l’intera regione del Medio Oriente, piena di gruppi armati considerati strettissimi alleati dell’Iran, dagli Hezbollah libanesi ad Hamas palestinese, sino agli Hasd al-Shaabi irakeni. E a rimetterci per primi sarebbero Arabia Saudita e alleati arabi del Golfo, che si vedrebbero bloccato lo stretto di Hormuz e compromesse a tempo indefinito le esportazioni di petrolio via mare.
Ora, proprio i Sauditi sono uno dei pilastri della politica mediorientale dell’America, e non da ora, ma dagli anni ‘30. Mai Trump potrebbe permettersi di compromettere i solidi legami con questo Paese mettendo a rischio le sue esportazioni. Ma il blocco di Hormuz, minacciato come arma estrema dall’Iran, metterebbe in ginocchio il Giappone, terza economia mondiale che dal petrolio del Golfo dipende, altro alleato strategico degli Stati Uniti.
Tuttavia vi sono anche altri fattori che hanno rapidamente cambiato lo scenario di guerra che appariva certo nello scacchiere mediorientale all’inizio dell’estate. In primis lo schieramento discreto ma concretissimo di Putin al fianco dell’Iran, che proprio in questi mesi è stato dotato dai russi di sofisticatissimi apparati per la guerra elettronica, quelli, per intenderci, che permettono di controllare e anticipare ogni mossa nemica, compreso il lancio di missili da basi lontane o di disturbare i collegamenti via radio e il funzionamento dei computer nemici. Né si può dimenticare che la Russia ha almeno una grossa base aerea in Iran, a due passi dal Golfo, che permette ai suoi cacciabombardieri di pattugliare tutta l’area in compagnia, si fa per dire, di quelli americani. Manovre navali congiunte russo-iraniane completano il quadro. Ancora, in questi mesi, l’instancabile ministro degli esteri iraniano Zarif ha compiuto decine di viaggi dall’Europa alla Cina, ottenendo sostegno non solo a parole. La Cina ha continuato a importare petrolio dall’Iran via mare, la Russia ne importa per altre vie che eludono le sanzioni americane. Ufficialmente l’Iran esporta oggi meno di un decimo di quanto vendeva prima delle sanzioni, ma in forma coperta è probabile che alcuni paesi oltre alla Cina riescano ancora ad avere il suo petrolio.
Di più: è recente la notizia della firma di un accordo Cina-Iran che garantisce la cifra stratosferica di 400 miliardi di dollari di investimenti cinesi nei prossimi 25 anni, nell’ambito della costruzione della nuova “Via della seta”. I cinesi costruiranno o ristruttureranno in Iran porti, linee ferroviarie, centrali elettriche, e rinnoveranno le fatiscenti attrezzature iraniane per l’estrazione e raffinazione del petrolio, sostituendosi a ENI, Total e altri colossi europei che hanno dato forfait sotto pressione americana.
Il tramonto del dollaro
Due osservazioni, che ci consentono di allargare il discorso oltre i destini del Medio Oriente. Da quando l’America di Trump ha iniziato a sanzionare tutte le imprese europee o asiatiche che continuavano a commerciare con l’Iran, quest’ultimo è riuscito a eludere in parte lo strangolamento economico stringendo accordi speciali con vari paesi, Turchia Russia e Cina in testa, in base ai quali il commercio viene fatto non più in dollari ma in moneta nazionale: rial iraniani e yuan cinesi o rubli russi o lire turche.
Al contempo questo processo di de-dollarizzazione del commercio ha preso piede e si ha notizia che anche India e Russia hanno stipulato accordi commerciali molto simili, ove è previsto l’uso crescente delle monete nazionali, rispettivamente rupie e rubli. Se si aggiunge il fatto che Russia e Cina dall’anno scorso hanno iniziato a ridurre progressivamente le loro riserve in dollari (comprando oro o altre divise), si può comprendere come la folle lotta di Trump all’Iran con annesse sanzioni a carico di mezzo mondo si stia rivelando un vero boomerang. Il declino del dollaro, annunciato da alcuni profeti solitari già all’inizio del secolo, ora è un fenomeno in atto e secondo i più inarrestabile. Persino l’Arabia Saudita nel prossimo futuro dovrà accettare almeno in parte pagamenti in yuan cinesi per conservare o aumentare le sue esportazioni in Cina. Lo yuan, si dice ormai senza remora di smentite, è destinato a soppiantare il dollaro come moneta di scambio egemone.
L’altra osservazione riguarda il progressivo compattamento dell’Asia (con annessa la Russia da sempre potenza euro-asiatica) in funzione anti-americana. Una miope politica americana di sanzioni crescenti alla Russia dopo l’annessione della Crimea, politica seguita acriticamente dall’Europa, ha spinto l’Orso russo in braccio al Dragone cinese. La Cina compra dalla Russia tecnologie militari e gas, anche qui con contratti persino quarantennali. Intorno al blocco russo-cinese si sta insomma sviluppando una politica di espansione economico-finanziaria che ha il suo pilastro nel menzionato progetto “Nuova via della seta”, con i suoi supermiliardari investimenti in Asia e Africa; politica che ha il suo scopo immediato nella drastica riduzione dell’influenza geopolitica americana in Asia e lo scopo ultimo nella creazione di un nuovo ordine mondiale a guida russo-cinese.
La povera Europa
E l’Europa? L’Europa, invece di saldarsi con la Russia post-comunista, uno spazio economico e geografico immenso in cui investire e commerciare a go-go, l’ha scioccamente respinta mandandola a nozze con la Cina. Il destino dell’Europa appare segnato: nell’immediato succubi degli Stati Uniti e della Borsa di New York, in prospettiva, da qui al 2050, satelliti del nuovo ordine russo-cinese e della Borsa di Pechino. A questo ci hanno portato élites europee incapaci di uscire dall’ottica di un progetto meramente mercantilistico-finanziario, che era cominciato negli anni ‘50 con la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) e ha dato il suo massimo con la creazione dell’euro e della Banca Centrale Europea. Punto.
Tornando a Iran e USA, si vocifera di prossimi incontri tra Trump e il presidente iraniano Rouhani, in vista di un accordo sulla falsariga di quegli incontri che Trump ebbe con il presidente nord-coreano dopo averlo a lungo insultato. Gli USA, che nel 2018 erano usciti unilateralmente dall’accordo nucleare 5+1 stipulato con l’Iran nel 2015 imponendo vessatorie sanzioni crescenti, premono ora per un nuovo accordo. Queste voci mettono un po’ di ottimismo. Anche se gli incontri non dessero frutti concreti, come del resto è accaduto a Trump con Kim Jong-Un, è chiaro che una guerra tra i due paesi è ormai fuori dell’agenda americana.
Il più frustrato da questa prospettiva pacifica sembra Netanyahu. Negli Stati Uniti qualche commentatore ha ironizzato: Netanyahu è bravo a chiamare alla guerra contro gli ayatollah con i nostri soldati… L’Iran solo quindici anni fa aveva un PIL che cresceva a due cifre e pareva destinato a divenire una potenza economica: dunque, non pericoloso per le armi nucleari (che l’Iran, a differenza di Israele, non possiede), ma perché appariva prossimo a divenire un temibile concorrente regionale, che andava fermato con o senza sanzioni. Israele, dopo avere perso la storica occasione di fare una pace giusta con i Palestinesi all’epoca di Arafat, si trova ora accerchiato da paesi in cui dominano movimenti politico-militari ostili e fortemente ideologizzati, dal Libano alla Siria e fino a Gaza, potentemente sostenuti dall’Iran, che vede in questi movimenti degli alleati preziosi, nel caso Israele volesse attaccarlo. Israele avrebbe potuto raggiungere la pace, una duratura pace con il mondo arabo, mostrandosi generoso con gli sconfitti palestinesi. Invece ha costruito il Muro. E ora si ritrova assediato dentro quel muro, fisico e psicologico, che esso stesso ha voluto, un muro che però in caso di guerra non potrà proteggerlo dalle salve di missili dei suoi non più disarmati vicini, animati da una rabbia antica e implacabile. Israele ha avuto una pace vantaggiosa a portata di mano con il vecchio e debole Arafat, e non l’ha fatta. Potrà mai farla con Hamas o con Hezbollah (e con l’Iran)?