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Eutanasia: in Belgio si può

Dal 2002 è in vigore una legge che consente l’eutanasia e potenzia le cure palliative. A condizioni precise e con una procedura rigorosa, restituendo al paziente il controllo sulla propria fine. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Jacqueline Herremans, Battina Foa, Barbara Bertoncin, Majda Chafouix

In Belgio, nel 2002, è entrata in vigore la legge sull’eutanasia. Il dibattito era vivace da anni e il primo esame parlamentare risale al 1999, quando si formò un governo cosiddetto “arcobaleno” con socialisti, liberali ed ecologisti che ha ripreso il dibattito sui temi di fine vita, varando infine la legge che legalizza l’eutanasia.

Nello stesso anno furono varate altre due leggi che hanno profondamente modificato il contesto medico in Belgio: una di iniziativa parlamentare relativa alle cure palliative e l’altra, di iniziativa governativa, sui diritti dei pazienti. A guidare le tre leggi è il principio del rispetto dell’autonomia e della dignità della persona.

In medicina, il compito del medico è quello di informare i pazienti, è lui che fa una prognosi, una diagnosi, e può proporre dei trattamenti. Il paziente ha il diritto di essere informato, dopodiché può consentire o meno ai trattamenti proposti senza dover dare spiegazioni. Per quanto riguarda l’eutanasia avviene il contrario: è il paziente che formula una richiesta di eutanasia e sta al medico pronunciarsi.

Oggi è ormai accettato che un malato possa rifiutare un trattamento, anche se questo rifiuto lo porterà alla morte. Ma che il paziente possa dire: “Voglio che mi si aiuti a morire” richiede un passaggio ulteriore.

Il primo dibattito in Senato nel 1997 fu stimolato da un parere del Comitato consultivo di bioetica a cui era stato chiesto di pronunciarsi sull’opportunità di una regolamentazione dell’eutanasia.

All’epoca fu avanzata una petizione, firmata da più di 2500 medici, che ebbe un forte impatto, perché erano gli operatori della sanità a chiedere che si intervenisse. Insomma, erano i medici stessi ad ammettere: “Stiamo ricevendo delle richieste, a cui non sappiamo come rispondere. O le ignoriamo o ci troviamo ad agire nella clandestinità”.

Nell’ambito del dibattito successivo, ci sono state anche delle audizioni al Senato, sia relativamente alle cure palliative che all’eutanasia. In un’audizione venne ascoltato Mario Verstraete, il primo che poi ottenne un suicidio assistito conforme alla legge. Mario all’epoca aveva una quarantina d’anni, poteva ancora spostarsi con le stampelle, era affetto da sclerosi multipla; era pieno di vita, era anche padre di un bambino.

Io, come presidente dell’Admd (Association pour le Droit de Mourir dans la Dignité), portai la testimonianza di Jean-Marie Lorand, affetto da una malattia neurodegenerativa che aveva attaccato i suoi muscoli costringendolo a letto; gli era rimasto solo l’uso di due dita, che gli permetteva di scrivere. Da tempo chiedeva di porre fine alla sua vita; aveva anche scritto un libro “Aiutami a morire”, un appello a morire con dignità. Aveva ricevuto l’eutanasia quando ancora la legge non era stata depenalizzata, grazie all’aiuto clandestino di un dottore.

Le regole

Per ottenere l’eutanasia devono essere soddisfatte tre condizioni. La prima, fondamentale, è la domanda del paziente. Una domanda volontaria e reiterata nel tempo. “Volontaria” nel senso che la persona è stata ben informata e che non ci sono pressioni esterne. Inoltre il paziente dev’essere affetto da una patologia grave e incurabile: questa è la seconda condizione. La terza sono le sofferenze causate dalla malattia: la sofferenza esistenziale non è contemplata.

Come funziona? Il paziente fa la richiesta al suo medico curante, che può essere uno specialista o il medico di base. In un primo tempo tale richiesta viene posta in modo ipotetico: “Ho il cancro; è possibile, se non guarisco, che a un certo punto possa ottenere l’eutanasia?”. Questo è l’inizio. Il medico a quel punto deve informare il paziente rispetto a diagnosi, prognosi, e a tutti i trattamenti curativi e palliativi possibili. Una volta che la domanda è formulata, è importante che i familiari e le persone più vicine vengano coinvolte. Ovviamente la volontà del paziente va rispettata, ma se egli rifiuta di informare i suoi cari è giusto interrogarsi sulle ragioni di questa opposizione. A volte il paziente ha dei problemi relazionali con i familiari, o semplicemente non vuole imporre una decisione a chi sa essere contrario all’eutanasia. E tuttavia la situazione preferibile è che quando si arriva al giorno fatidico, tutti siano stati avvisati di questa decisione e che ci sia anche la possibilità, se il paziente e i familiari lo desiderano, che questi siano presenti e lo accompagnino.

È necessario anche un colloquio con l’équipe medica, ma non è questa che decide. Le persone deputate a decidere sono il paziente e il medico, però un colloquio con l’équipe medica è fondamentale, anche per una questione di rispetto nei confronti di coloro che hanno seguito quella persona per mesi, a volte per anni.

Nel caso di una malattia che verosimilmente porterà il paziente alla morte in breve tempo, è necessario consultare un altro medico, una figura indipendente, che dovrà esaminare la cartella clinica, visitare il paziente e confermare il carattere grave e incurabile della malattia e la pesantezza della sofferenza. Se invece il decesso non è vicino, ci vuole il parere di un secondo medico, uno specialista della patologia o uno psichiatra.

Pensiamo alle vittime di incidenti stradali, che restano paralizzate. La prima reazione di uno di costoro può essere: “Non voglio vivere questa vita”, ma magari qualche tempo dopo può aver trovato una forma di adattamento e cambiare idea. In questi casi è importante prendersi tutto il tempo necessario.

In ogni caso deve trascorrere un mese tra la domanda scritta e l’atto di eutanasia.

La legge non esige che la persona che chiede l’eutanasia sia in fase terminale. Ogni caso va esaminato in funzione della persona, della patologia, del contesto. Non esiste una risposta standardizzata. La legge è lì per dare un quadro di riferimento generale.

Avvenuta l’eutanasia, la vicenda viene valutata da una commissione composta da medici e giuristi che ha il compito di analizzare l’atto a posteriori. Se, al termine dell’esame, si ritiene che le condizioni essenziali non siano state rispettate, il dossier viene inviato all’autorità giudiziaria; fino ad oggi è successo una sola volta.

La differenza fra eutanasia e suicidio assistito è che nel primo caso è il medico che somministra un farmaco letale a un paziente consenziente, nel secondo, invece, è il paziente a somministrarsi autonomamente il farmaco, sempre però sotto il controllo del medico, che deve essere presente fino all’ultimo respiro del suo paziente.

Un bilancio

Uno dei fenomeni che ci ha dato da pensare è che si sono presentati casi che non avevamo considerato in partenza. All’inizio pensavamo a pazienti affetti dal cancro, o da malattie neurologiche degenerative. Con l’introduzione della legge, ci siamo accorti che le domande venivano anche da pazienti affetti da insufficienza renale, respiratoria, cardiaca; lo spettro, insomma, si è allargato. Inoltre, in una prima fase la categoria delle persone anziane non era molto importante dal punto di vista dei numeri, mentre col passare degli anni abbiamo assistito a un aumento. Qui conta sicuramente il fatto che sempre più persone sono informate dell’esistenza di questa legge.

Abbiamo anche assistito a un aumento di condizioni non chiaramente definibili; soprattutto, hanno cominciato a presentarsi anziani affetti da diverse patologie. A 80 anni puoi avere gravi problemi di mobilità, perdere l’udito, ma se perdi anche la vista? Diventare ciechi a vent’anni anni è una catastrofe, ma ci si può adattare, imparare il braille, ma se ti capita a ottant’anni? Ecco, a volte la presenza contemporanea di più patologie croniche incurabili può causare gravissime sofferenze. La polipatologia è oggi la seconda causa di malattia grave e incurabile e quindi, in questi casi, c’è la possibilità di chiedere l’eutanasia.

Un medico che conosco, un geriatra, parla della triade “afasia, aprassia, agnosia”, cioè incapacità di esprimersi e di comprendere, incapacità di compiere gesti coordinati e infine incapacità di riconoscere ed identificare oggetti e persone; ecco, in queste situazioni si stima che siamo all’interno del quadro della legge e che quindi ci siano le condizioni per l’eutanasia.

C’è un piccolo articolo della legge che ha previsto l’accompagnamento psicologico per tutte le persone implicate. In realtà, quando una decisione è stata condivisa, è più facile elaborare il lutto, è un po’ come se ci si fosse preparati. Nelle situazioni che ho seguito, ho visto tanta emozione prima, tanta emozione durante, ma poi si torna più rapidamente ai bei ricordi. Ovviamente la separazione dai propri cari resta dolorosissima. Sono ancora in contatto con la mamma di una donna che ha ottenuto l’eutanasia, che mi ripete sempre: “Mia figlia mi manca tanto”, ma le sarebbe mancata in ogni caso, almeno l’ha potuta accompagnare, è potuta stare con lei fino alla fine. Porto sempre con me la foto di una ragazza francese, l’abbiamo fatta al ristorante; prima di morire voleva vedere la Grande Place di Bruxelles, così in quei giorni mi sono trasformata in una guida.

Anche i minori

Nel 2014 la legge ha esteso l’eutanasia anche ai minori. Il dibattito in parlamento è stato avviato nel 2013 e ha trovato un’adesione sufficiente per modificare la legge. L’estensione dell’eutanasia ai minori rispondeva anche a una richiesta che veniva dai medici, preoccupati per il destino di pazienti minorenni affetti da malattie incurabili e da sofferenze impossibili da alleviare, giovani che non sarebbero mai diventati adulti perché la morte li avrebbe portati via prima.

Anche in questo caso è il paziente che deve fare la richiesta: i genitori non possono presentarla al posto dei figli, ma il loro consenso è indispensabile. Si è poi discusso della soglia: da quale età partire? L’esito della discussione è stato che è impossibile determinare un’età precisa, ciò che conta è che il bambino abbia la capacità di discernimento, attestata o da un esperto di psichiatria infantile o da uno psicologo, i cui pareri sono vincolanti; quindi se uno psichiatra dice: “No, questo bambino non sa cosa vuol dire morire, pensa di poter tornare dopo l’eutanasia”, ci si ferma. Fino ad oggi ci sono stati tre casi, fra il 2016 e il 2017. Il più giovane aveva 9 anni, il più grande 17.

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Jacqueline Herremans, avvocata, è presidente della Associazione belga per il diritto alla morte con dignità (Admd).