“It’s app to You”
Al confine fra reale e virtuale
Qual è il confine fra reale e virtuale? Che rapporto ha l’uomo con se stesso quando utilizza la tecnologia? È egli padrone delle proprie scelte, oppure no?
Sono le principali domande sollevate da “It’s app to you – o del solipsismo”, opera prima della giovane compagnia Bahamut. Uno spettacolo che per la sua freschezza e originalità ha vinto nel 2018 il premio In-Box (In-Box Blu, per la precisione), riconoscimento che intende dare respiro e visibilità a compagnie teatrali emergenti nell’ambito della scena contemporanea nazionale. È grazie a questa rete che la proposta è approdata al Teatro Portland di Trento (che a quel circuito aderisce) lo scorso 18 gennaio.
“It’s app to you” nasce da un’intrigante intuizione di Leonardo Manzan, regista e anche attore insieme ad Andrea Delfino e Paola Giannini; i tre, inoltre, coadiuvati da Camilla Mattiuzzo, sono autori della drammaturgia collettiva.
L’idea alla base della creazione è semplice ed efficace. Attraverso un’applicazione per smartphone, un giocatore può comandare in diretta il personaggio del videogioco e svolgere delle indagini per risolvere un giallo. Ma il giocatore ha davvero il controllo del gioco e il libero arbitrio sulle sue mosse? O è piuttosto il gioco, attraverso regole limitate, codificate e prestabilite dettate da un algoritmo, a controllare lui, oltre che il personaggio virtuale?
Tre sono i caratteri dello spettacolo. Algoritmo (Andrea Delfino), essere onnisciente che ha già scritto azioni e parole degli altri personaggi, instancabile (deve bere continuamente caffé perché non può addormentarsi) autore e demiurgo di tutto ciò che accade, vero e proprio regista in scena che non solo comanda i personaggi e guida le loro relazioni, ma pure, dalla sua console, manovra dall’interno luci e musiche.
46 (Paola Giannini), una graziosa e snodatissima figura femminile da videogioco con treccine e lunghe gambe, una sorta di Lara Croft di Tomb Raider.
47 (Leonardo Manzan), che si presenta come solipsista (affermando che nessun altro esiste e tutto è proiezione del suo pensiero) e si trova ad essere il giocatore scelto per la partita.
Obiettivo del videogioco è scoprire, di minigioco in minigioco, indizio dopo indizio, chi ha ucciso 46, ovvero il personaggio a cui Algoritmo detta le regole e impone la voce, dirigendolo come un burattino.
47, come detto, è chiamato a risolvere l’enigma dell’assassinio. Il giocatore però non ha alcuna libertà di scelta (è previsto dal sistema che talvolta possa esprimere una libera opinione, ma altro non è che un passaggio funzionale ad avanzare alla fase successiva); deve stare dentro le immutabili regole imposte da Algoritmo, che lo pilota attraverso un gioco e ad ogni game over ricomincia sempre uguale. Una catena che prosegue potenzialmente all’infinito. Un meccanismo perverso che finisce per risucchiare il giocatore all’interno del videogioco, trasformandolo da persona reale in personaggio virtuale, finché un nuovo player non lo libererà completando una nuova partita e prendendo il suo posto.
La forza di “It’s app to you” risiede nell’apparente leggerezza, nella cinica ironia con cui la compagnia sceglie di affrontare temi pienamente contemporanei e “seri” come la confusione tra realtà e finzione, la perdita dell’identità, la sottomissione più o meno volontaria ai subdoli meccanismi della virtualità.
I tre giovani attori sono bravi, rifacendosi all’immaginario dei videogiochi (Super Mario Bros, Tomb Raider, Hitman le citazioni più evidenti) a trasmettere quest’idea attraverso un ritmo giusto e senza cedimenti, gestendo con intelligenza accelerazioni e rallentamenti in modo da scatenare l’effetto comico, e attraverso un’ottima e accalappiante sincronia di parola, gestualità, mimica facciale e movimento del corpo.