LaVis, la Cantina non c’è più
Dopo il disastroso bilancio 2018. Tre strade possibili: l’aumento di capitale, la liquidazione o la trasformazione in altra società
“LaVis, il terzo polo non esiste più” titolava il Corriere del Trentino, al solito il più realistico, almeno nelle pagine dell’economia, dei tre quotidiani, mentre gli altri rappresentavano i grandi (?) successi dell’ultimo bilancio della Cantina come gli erano stati riferiti dai solerti addetti stampa. Sì, il terzo polo del vino trentino, una sciocchezza sul piano della logica economica, come sostenuto dal mitico Piano Pedron a suo tempo commissionato (e poi precipitosamente messo in un cassetto) dalla Federazione di Schelfi: per un piccolo territorio, già due poli – Cavit e Mezzacorona – sono quasi un assurdo, tre fa venire da ridere. E infatti il “terzo polo” era solo un’escrescenza clientelare, frutto del rapporto privilegiato di una cantina fin allora dedita alla qualità dentro il gruppo Cavit, con la politica, nella persona dell’allora onnipotente presidente Lorenzo Dellai. La LaVis, divenuta terzo polo, ritenutasi onnipotente anch’essa, si gonfiò come una rana, si dedicò alla quantità, acquistò tenute in Toscana, diede vita a presuntuosi ristoranti stellati, rilevò complessi industriali, omaggiò di diversi milioni l’altra onnipotente realtà, la finanziaria del vescovo, dirottò ancora altri milioni (almeno 6) in una opaca società americana. I suoi amministratori finirono in Tribunale, dove furono condannati.
Il fatto quindi che l’attuale presidente Pietro Patton dichiari finita la mortifera illusione del terzo polo, è una salutare presa d’atto della realtà. Anche se tardiva.
Il bilancio 2017-2018 infatti dipinge, se lo si legge, una realtà catastrofica. I dati complessivi del gruppo (non quelli ottenuti scorporando questa o quella attività, per indorare la pillola) sono molto crudi: registrano l’ennesima perdita, 1.655.517 euro, che si somma all’analoga dello scorso anno: 1.645.000. I debiti sono una montagna non scalabile, oltre 81 milioni, uno in più dello scorso anno.
Ma il colpo più duro viene dalla Revisione cooperativa. La quale contesta la correttezza di ben cinque poste in bilancio per un totale di 7.570.000 euro che andrebbero detratti dal patrimonio netto. Ma il patrimonio netto, di soli 3.669.519, se viene corretto dell’entità rilevata dai revisori, diventa negativo, e di ben 3.905.000 euro.
Ma una società non può avere un patrimonio netto negativo. E qui si aprono tre strade: l’aumento di capitale, la liquidazione o la trasformazione in altra società. L’aumento di capitale sembra improbabile, con 81 milioni di debito, e con i soci che hanno già dato molto, sia come crediti (3,6 milioni) sia come remunerazione dell’uva conferita inferiore a quella di mercato. Per evitare il fallimento la LaVis ha intrapreso due strade, entrambe illustrate dal revisore con una punta (forse ancora insufficiente) di scetticismo. La prima è un’ulteriore dilazione dei prestiti da parte delle banche creditrici. Già due anni orsono e pure un anno fa la Cantina e le banche avevano convenuto su dei Piani di risanamento, ogni volta disattesi. Ora se ne vara un terzo, con lo spostamento di tutti i debiti oltre i 12 mesi. Una mossa disperata, perché gli 81 milioni di debiti rimangono, come pure i quattro di patrimonio netto negativo.
Di qui la seconda strada: aderire a Cavit. Tornare all’ovile, insomma, dopo la clamorosa uscita di 14 anni fa. Una strada obbligata. La Revisione infatti (forse con troppo ottimismo, secondo alcuni) si limita ad esprimere “incertezze sulla continuità aziendale”; in soldoni, a dichiarare il fallimento alle porte, non in atto – proprio confidando in questo “progetto di riassetto del Gruppo”.
Il fatto è che non si tratta di una strada facile. Anche per motivi non strettamente economici: nel 2004 LaVis era uscita da Cavit sottraendole il miglior cliente, cui aveva offerto condizioni più vantaggiose (per poi farselo soffiare da Mezzacorona, a prezzi ancora più risicati: queste le delizie dei tre poli); le altre cantine socie di Cavit non hanno dimenticato quello sgarro, e quanto per esso hanno dovuto pagare. Ma soprattutto ci sono motivi finanziari: cosa vuol dire riassorbire LaVis? Farsi carico di quanti degli 81 milioni di debiti?
In realtà la Cantina ha ancora una sua appetibilità. Non può più stare in piedi perché le follie degli anni passati hanno provocato una diaspora dei soci con un dimezzamento degli ettari di vigneto (e ancora nell’ultimo anno il bilancio deve registrare l’abbandono di ulteriori 84 soci, non compensati da 30 nuove adesioni), mentre la struttura (immobili, dipendenti, rete commerciale) è giocoforza rimasta la stessa. Ma ancora controlla ottimi terreni, a Pressano e in Val di Cembra. Cesarini Sforza produce grandi vini. Casa Girelli ha problemi, ma detiene marchi interessanti di vini di largo consumo.
LaVis è andata a quel paese per le diseconomie generate dalla contiguità con la politica. Ora, se i suoi permanenti punti di forza possano essere giocati all’interno del consorzio Cavit, che peraltro gode di ottima salute, lo deciderà il consorzio stesso. Che però potrebbe essere tentato di rilevare solo quanto gli interessa.
Per parte nostra sottolineiamo ancora una volta i disastri provocati dalla politica quando si intromette nell’economia. E ricordiamo come, dopo Dellai, Ugo Rossi abbia continuato sulla stessa strada, regalando alla Cantina altri 10 milioni. Che si è visto come sono finiti.