“I Pedrotti. Tre generazioni di fotografia”
Quando il mestiere si fa arte. Trento, Palazzo Trentini,fino al 23 giugno
I fratelli Pedrotti, lo sappiamo, sono stati una straordinaria fucina di arte fotografica, tra gli anni ‘30 e i ‘70 del secolo scorso. Così come sono stati il motore di quello che è diventato il complesso canoro per antonomasia, il coro della Sat (nato nel 1926 come coro della Sosat, articolazione “operaia” dell’associazione alpinistica).
Ma sono stati gli artefici di un fenomeno che è andato al di là dei risultati specifici raggiunti nell’uno e nell’altro campo. Hanno cioè dato vita a qualcosa che è servito come strumento di identificazione e coesione culturale. Molti trentini, e tra loro forse i cittadini più degli altri, hanno trovato nella felice combinazione di quei due mezzi espressivi, e in quella particolare rappresentazione dell’ambiente naturale e umano di questa terra che ne è il comune riferimento, un nutrimento che ha alimentato per decenni – e in qualche misura non ha smesso di farlo – un modo di percepire e godere la montagna e i rapporti umani che vi crescono.
Non c’è stato folklore, né inseguimento della cronaca, in questa durevole azione dei Pedrotti, piuttosto uno sguardo romantico, ideale, dotato di una speciale sensibilità, capace di inseguire l’essenzialità dell’immagine; di fare anche tesoro dei contributi della ricerca colta, ma sempre parlando confidenzialmente a chi guarda e ascolta.
La mostra di palazzo Trentini, oltre a proporre una selezione di opere dei quattro fratelli (il Fondo provinciale F.lli Pedrotti ne comprende oltre 120.000, una miniera da indagare) ci informa anche del lavoro del figlio Luca (1943) e del nipote Federico (1969) di Enrico, il più anziano (1905-1965), fondatore dello studio fotografico.
E questo accostamento rende più evidente il fatto che, pur lasciando degli eredi, l’esperienza dei fratelli fu un fenomeno irripetibile. La solidissima base di mestiere, la fedeltà al bianco e nero, il gusto per l’indagine ritrattistica, certi tagli tendenzialmente astratti nella foto di paesaggio: tutte cose che, lo si vede, sono largamente passate di padre in figlio. Quello che è cambiato, anche radicalmente, è il contesto: professionale e geografico, certo, ma soprattutto storico e culturale, per i fotografi che operano dopo gli anni ‘80.
Enrico, Mario, Silvio, Aldo, nati alle Androne tra il 1905 e il 1914, aprirono da subito occhi curiosi sul mondo, e crebbero tutt’altro che provinciali. Non avevano studi formali, impararono il lavoro sul campo (dai fotografi Brunner e Perdomi, in particolare) ma erano ben attenti a quello che succedeva nella ricerca fotografica e nel cinema, per quanto era possibile essere informati del mondo durante il ventennio fascista. Parteciparono anche, con riconoscimenti importanti a concorsi internazionali.
Esistono dei libri, tre in particolare, che bisogna qui segnalare per poter apprezzare meglio il valore della loro opera. Il primo è Canti della montagna, uscito nel 1935 e riedito nel ‘48, in cui ogni testo di canzone è accompagnato da una fotografia che ne riflette e amplifica il particolare sentimento, lieto o triste: è un’operazione nuova, che diventa subito un amatissimo, popolare strumento di attivazione di uno stato d’animo e di un immaginario condiviso, in una sorta di circuito emotivo.
Il secondo libro è Guarda, ascolta. L’originale avventura tra musica e fotografia dei F.lli Pedrotti, a cura di Angelo Schwarz, con contributi accurati di Franco de Battaglia, Floriano Menapace e Antonio Carlini (2001). Accogliendo certi suggerimenti di de Battaglia, possiamo notare che, così come in ambito musicale i Pedrotti scoprirono il valore del “sottovoce” (la cosa colpì molto un musicista esperto come Luigi Pigarelli, autore di molte armonizzazioni dei canti), in ambito fotografico il loro segno distintivo, e di intatta suggestione, è il particolare uso del fattore luce: quel risultato quasi grafico dei campi di neve segnati, o appena toccati dalle tracce umane, dove la scoperta della pratica dello sci, da esperienza vitale si travasa in pagina disegnata, di puro piacere visivo, evocando il sentimento primordiale e intimo della magia della natura.
Il terzo libro è I bambini delle Androne, piccolo gioiello di narrativa: sono le memorie dell’infanzia di Enrico e dei suoi fratelli (scritte da lui nel 1949 per i propri figli), documento vivo e toccante sul passaggio dagli anni precedenti la Grande Guerra, all’esodo in Boemia, al ritorno alle Androne in tempo per vedere l’entrata degli italiani in Trento, alla ricerca di una strada per crescere, mai solo individuale ma condivisa coi fratelli e i genitori. Pubblicato la prima volta all’interno del volume di Schwarz sopra menzionato, ha avuto una seconda edizione nel 2002 per iniziativa della Sat, presso la quale forse si trova ancora qualche copia.