“Macbettu”
Magia pura
La Scozia medievale e la profonda Sardegna di oggi non potrebbero essere più vicine. Merito di Alessandro Serra che, traendo ispirazione dal Carnevale della Barbagia, ha intuito quanto gli elementi arcaici e ancestrali così radicati in quella cultura potessero far pulsare di nuova vita una tragedia immortale come il Macbeth di Shakespeare. Questa l’origine di Macbettu, produzione Sardegna Teatro-Compagnia Teatropersona, Premio Ubu 2017 come miglior spettacolo dell’anno, di tappa lo scorso 13 marzo al Teatro di Mori (complimenti per la scelta).
Per rendere la potenza delle passioni cruente dipinte nel Macbeth, Serra percorre con vigore la via degli effetti sonori, visivi e teatrali. C’è per prima cosa la traduzione in limba sarda svolta da Giovanni Carroni; una scelta che, come afferma il regista, “non limita la fruizione ma trasforma in canto ciò che in italiano rischierebbe di scadere in letteratura”.
La vicenda è arcinota; ci sono i sottotitoli, ma conta di più lasciarsi avvolgere dalla musicalità di una lingua aspra e barbarica, affascinante nella sua alterità. C’è poi tutta la sapienza di Serra nel governare gli strumenti dell’arte teatrale, dalle luci alle scene ai costumi; tutto il suo rigore registico nel dirigere gli attori (tutti uomini, come nella tradizione elisabettiana e in certi rituali popolari barbaricini) ad una perfezione tecnica fortemente evocativa.
La scena è essenziale e densa: tre lunghe strutture metalliche che fungono di volta in volta da plumbeo fondale, da mura, spalti e porte del castello, da tavoli del banchetto e alberi della foresta. Dominano ovviamente le tinte cupe, i neri e i grigi, le tenebre e la polvere. Questo il panorama spoglio in cui è ambientato Macbettu, una Barbagia senza tempo dove il folklore locale diventa un codice di forme, figure, gesti, sguardi, contegni universalmente decifrabile. Non c’è passaggio, personaggio, scena che non faccia ricorso a questo bagaglio culturale. Le Sorelle Fatali, calcate nella loro potenzialità comico-grottesca, simili a vecchiette curve, si muovono (con movimenti curati da Chiara Michelini) con rapidi passetti di ballu tundu, tra di loro confabulano, litigano, si lanciano scope e insolenze. Le pietre richiamano quelle dei nuraghi. Dopo il regicidio di Duncan, guardie a torso nudo ne bevono il sangue come cani e porci affamati.
Il successivo corteo funebre è cadenzato dal tonfo sordo della bara lasciata cadere a terra e, per contrappunto, dallo scrosciante suono di bastone della pioggia quando questa viene rimessa in piedi. Nella scena del banchetto, il fantasma di Banquo cammina sopra i tavoli imbanditi, facendo sentire sotto l’incedere dei suoi passi immateriali e pesanti la croccantezza e la friabilità del pane carrasau. L’avanzare della foresta di Birnam, infine, è resa con carnevalesche maschere di sughero.
Come non rimanere incantati, poi, dalla forza delle luci, o dall’effetto della polvere sollevata con sorprendente semplicità? Come non applaudire (e le ovazioni sono state lunghissime e sincere, dentro e fuori dal teatro) la precisione e l’affiatamento di tutto il complesso attorale? Come non ammirare l’intensità e le variazioni d’intonazione di Leonardo Capuano nei panni di Macbettu, o la fisicità della Lady Macbeth barbuta di Fulvio Accogli?
A volte il teatro sa regalare magia pura. Alessandro Serra, i suoi collaboratori tecnici e i suoi magnifici attori ci sono riusciti, creando uno spettacolo al tempo stesso essenziale e complesso, universale e fortemente intriso di Sardegna. Ogni luce, ogni movimento, ogni intonazione, tutto è studiato nel minimo dettaglio tecnico.
Una tecnica che non è mero sfoggio di bravura, ma è capace di creare immagini mozzafiato e di trasmettere emozioni fortissime, tenendo lo spettatore in tensione costante per tutto il tempo, perché c’è sempre un’invenzione artistica ad aspettarlo.
Ecco, se immagino come potesse essere il teatro delle origini, quello degli antichi Greci, o un teatro che cerchi di avvicinare le forze primordiali, mi figuro qualcosa di questo tipo.