La trappola afghana
Per l’Occidente è una partita ormai persa, a favore di Russia e Cina
Dice un vecchio detto afghano: “Quando Allah ebbe fatto il resto del mondo, vide che gli era rimasta una certa quantità di materiale di scarto, che non si adattava a nessun posto. Raccolse tutti questi residui e li gettò sulla terra. E quello fu l’Afghanistan”.
E davvero questa leggenda sembra contenere in nuce qualche verità sul destino dell’Afghanistan, tipica terra di passaggio, da cui sono transitati davvero tutti, lasciandovi una congerie di tracce e monumenti eterogenei: greci, iranico-zoroastriani, indo-buddisti, arabi, cinesi, fino alle ultime tracce - le più dolorose e odiose nella memoria degli Afghani - del colonialismo (e post-colonialismo) europeo, inglese e russo, e, oggi, euro-americano. Un paese che è pure un autentico coacervo di razze e di lingue: turkemeni e pashtun, hazara (discendenti dei mongoli) e iranici, ebrei (ormai ridotti a poca cosa) e varie altre minoranze, ciascuna con la propria lingua, una sua storia, il proprio orgoglio ecc., di cui ci siamo fatti un’idea anche attraverso i romanzi di Khaled Hosseini (“Il cacciatore di aquiloni”, “Mille splendidi soli”).
Un paese insomma che ha via via accumulato gli avanzi e i resti della storia di mezzo mondo, ma non un paese dominato, anzi. Spesso, a dispetto della sua oggettiva esiguità geopolitica, l’Afghanistan s’è proiettato in modo aggressivo sui territori circostanti. Può apparire strano a chi conosce l’Afghanistan solo dalle cronache giornalistiche più recenti, eppure le fiere tribù montanare di questo paese - da sempre aduse alla razzia e alle incursioni nei territori delle tribù limitrofe, a fare e disfare alleanze intertribali con la stessa facilità con cui si cambia un vestito - hanno più volte mostrato la capacità di incidere in profondità anche nelle realtà vicine del subcontinente indiano e dell’altopiano iranico.
Il carattere intrinsecamente e irrimediabilmente tribalistico della società afgana, strutturalmente alieno da qualsiasi potere centrale (uno Stato, nel senso moderno del termine, è ancora oggi in Afghanistan più una speranza che una realtà fattuale), ha imposto un compromesso persino all’islam, religione - nelle sue varianti sciite e sunnite - della quasi totalità degli afghani: la shari’a di fatto deve convivere con il pashtunwali, il codice d’onore tradizionale delle tribù (qualcosa che ha un parallelo in altre società islamiche montanare a struttura arcaica come quelle di alcune zone dello Yemen e dell’odierna Albania) e anzi spesso, in caso di dubbio o di contrasto insanabile tra i due codici, si applica il secondo piuttosto che il primo.
È con questa realtà anarcoide e indomabile di clan e tribù che, ancora oggi, deve fare i conti ogni governo afghano. La sua tipica anarchia tribale è stata, inopinatamente, capace di produrre delle campagne militari devastanti ai danni di realtà statuali ben altrimenti solide e consistenti, come ad esempio l’impero safavide in Iran (travolto da orde di incursori afghani nella prima parte del ‘700) o l’impero Moghul in India.
Quest’ultimo fu dalla metà del ‘700 alla fine del secolo costantemente sotto la minaccia degli Afghani che giunsero più volte a Delhi (sotto le bandiere di Nader Shah nel 1739 e più tardi con l’emiro di Kabul Ahmad Shah Durrani che razziò Delhi ben sette volte tra il 1748 e il 1767). Non meraviglia allora che le campagne militari dei campioni del colonialismo europeo, dall’Inghilterra alla Russia zarista - protagonisti nell’Ottocento del cosiddetto “Grande Gioco” in Asia centrale - si siano sistematicamente arenate e con esiti spesso disastrosi tra le montagne dell’Afghanistan.
Gli Inglesi tentarono più volte di soggiogare le tribù afghane e giunsero con relativa facilità a conquistare le principali città e a installarvi guarnigioni militari e embrioni di amministrazione civile. Il difficile è sempre arrivato dopo: amministrare una congerie di clan e tribù e soprattutto garantire la sicurezza delle vie di comunicazione che passano attraverso gole e passaggi obbligati, dove un manipolo di ribelli può mantenere in scacco un’intera divisione o può decimare i suoi effettivi con incursioni e scorrerie impreviste.
Quel che è accaduto con le più recenti disavventure dell’Armata Rossa sovietica è significativo. Entrata in Afghanistan con bandiere e fanfare nel 1979 per sostenervi il locale partito comunista, fu costretta nel 1989, dopo avere subito uno stillicidio di uomini e mezzi ad opera della guerriglia (in cui militavano anche Bin Laden e i suoi accoliti, all’epoca sostenuti dalla CIA…), a sloggiare dal paese con la coda tra le gambe.
Nel 2001, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, gli USA decidono di punire l’Afghanistan dei Talebani che ospitava guarda caso proprio l’ex amico Bin Laden. Il resto è storia nota, i Talebani vengono sconfitti e si insedia a Kabul un governo filo-occidentale sostenuto dagli Americani e da una coalizione europea in cui non manca un consistente contingente italiano (il secondo dopo quello americano, fino a non molto tempo fa).
Ma il controllo del territorio non è mai stato stabile e oggi il governo centrale, sostenuto dalle forze euro-americane, controlla a fatica le zone urbane e poche altre collocate un po’ a macchia di leopardo.
I gravi problemi della coalizione euro-americana di questi anni, che deve ora fronteggiare una ripresa della guerriglia interna dei Talebani, si inseriscono in un quadro storico ben noto che abbiamo più sopra sommariamente riassunto. Un paese un po’ speciale dunque, certo marginale nella storia mondiale, ma che ogni volta che ci è entrato ha saputo lasciare un segno, costringendo spesso i suoi due grandi vicini e più recentemente le grandi potenze occidentali a - per dirla con un eufemismo - più miti consigli.
Dalla storia all’attualità
Ma veniamo ai nostri giorni, segnati com’è noto da una ulteriore recrudescenza soprattutto di attacchi terroristici nelle grandi città, Kabul in testa.
Chi scrive ha visitato Kabul in altri tempi, era il 1976 quando trascorsi un mese in Afghanistan percorrendolo in lungo e in largo con mezzi pubblici, gli affollatissimi e coloratissimi autobus afghani che ospitavano passeggeri a due e a quattro gambe in cabina e sul tetto, ma si fermavano sempre alle ore prescritte per permettere ai buoni musulmani di scendere e eseguire la preghiera. Nel giorno di Nowruz (il capodanno) a Mazar-e Sharif, nel nord del paese, assistei a una partita di bushkasi (l’antenato del gioco del polo, di origini centrasiatiche) disputata su una radura dove due squadre di cavalieri si disputavano violentemente il possesso di una carcassa di pecora decapitata galoppando a dritta e a manca in un’area circondata da poliziotti arcigni, che tenevano a bada gli spettatori entusiasti a calci e scudisciate; ammirai belle ragazze in minigonna per le vie di Kabul e le gigantesche statue dei Bhudda di Bamyan nel centro del paese, poi distrutte a cannonate dai Talebani. Non so se si fanno ancora le partite di bushkasi, ma certamente ragazze in minigonna e statue del Bhudda intatte non se ne vedono più da quelle parti.
Quel che è successo in queste ultime settimane si spiega solo in parte con la fuga in massa da Siria e Iraq di bande dell’Isis verso l’Afghanistan, ritenuto territorio in cui è più facile trovare un rifugio sicuro. Certamente più sicuro della Turchia o dell’Europa dove le polizie nazionali sono allertate soprattutto dal paventato ritorno dei cosiddetti foreign fighters.
Questa transumanza di soldataglie dell’ISIS verso est ha messo in allarme i paesi interposti, in particolare l’Iran. Paese sciita e quindi nemico giurato dell’ISIS che da sempre rappresenta l’estremismo di marca sunnita, l’Iran ha dovuto in questi mesi fronteggiare questi reduci dalla Siria e dall’Iraq anche manu militari. Sono recentissimi (fonte: l’edizione online del 28 gennaio della BBC in lingua persiana) le notizie di scontri fra gruppi di reduci dell’ISIS sulla frontiera occidentale dell’Iran, con morti e feriti, che hanno costretto l’élite dell’esercito costituita dai Pasdaran a intervenire in forze.
Ma, dicevamo, i reduci dell’ISIS non spiegano da soli questo improvviso peggioramento della situazione afghana. L’amministrazione Trump ha dato segnali di una ripresa del tradizionale isolazionismo dei Repubblicani, peraltro in linea con la politica di Obama, che aveva già programmato e in parte iniziato un ritiro di truppe dall’Afghanistan. Paradossalmente oggi è l’Iran che paventa un disimpegno americano (o euro-americano) dall’Afghanistan che esporrebbe il paese a pressioni e possibili infiltrazioni indesiderate da est. Insomma, gli ayatollah non lo possono gridare, ma con tutto il cuore si augurano che gli USA restino in Afghanistan…
Ecco il punto: perché gli USA dovrebbero ancora spendere vite umane e miliardi di dollari per un paese ormai divenuto ingestibile? L’Afghanistan è stato certamente la frontiera avanzata dell’Occidente e, nello scacchiere centrasiatico, formato da paesi alleati della Russia di Putin o della Cina di Xi Jinping, è una piccola isola ormai, quasi una Fort Alamo dell’Occidente. La ritirata di USA e alleati europei significherebbe consegnare anche questo paese all’influenza russo-cinese, a quella alleanza del cosiddetto “Patto di Shanghai” che ormai lega allo zar russo e all’imperatore cinese quasi tutti i paesi dell’area, a cominciare dall’Iran e (più recentemente) la Turchia di Erdogan.
Forse gli Americani stanno prendendo atto che la partita in quello scacchiere è perduta, e che l’Afghanistan (paese confinante con l’ex Impero Celeste) è ormai destinato a diventare il cortile di casa dei signori di Pechino. Ma, si sa, Trump è imprevedibile…