“La fabbrica dei preti”
La profonda sensibilità di Giuliana Musso
Giuliana Musso è un’artista dalla sensibilità rara. Dire che interpreta dei personaggi è riduttivo: li sceglie, li indaga nel profondo e poi, in scena, riesce nel non facile compito di aderire intimamente al loro animo. Un metodo di lavoro che contraddistigue l’attrice vicentina e che ne “La fabbrica dei preti” – in scena al Teatro di Pergine lo scorso 13 dicembre – raggiunge il suo apice.
Dichiaratamente ispirato a “La fabriche dai predis” di don Pietrantonio Bellina (in friulano pre Toni Beline), “La fabbrica dei preti” racconta delle assurde condizioni nelle quali venivano formati gli aspiranti sacerdoti prima del Concilio Vaticano II ma ordinati ed entrati in servizio dopo. Di come i seminari fossero “fabbriche” o caserme che producevano uomini dalla fede astratta, impreparati alla vita e al mondo reale, educati ad un rapporto dissociato col proprio corpo (diviso in parti lecite, meno lecite e illecite) e con l’altro sesso (la donna, vista come un animale mitologico, qualcosa di peccaminoso.
Giuliana Musso sceglie tre storie di sacerdoti ordinati nel 1965 che, ormai anziani, fanno il bilancio della propria vita. Sono tre storie esemplari, di preti ribelli, controcorrente, onesti, innamorati della vita, che con la testimonianza della loro esistenza rivelano un sistema fatto di proibizioni e rigide direttive, che con le loro scelte hanno cercato di superare. L’attrice si cala nell’animo di un prete spretato e sposato, di un missionario “delirante” (nel senso etimologico di “uscito fuori dal solco”) e polemico con il puritanesimo e le gerarchie, di un emiliano remissivo da giovane e poi “guarito” dalla relazione con la gente. Giuliana Musso interpreta questi caratteri penetrando nell’intima sensibilità di ciascuno di essi, diversificandoli soprattutto con le intonazioni, dal momento che il loro abbigliamento si modifica di volta in volta di dettagli minimi (ad esempio, le maniche della camicia ora distese, ora arrotolate).
All’intensa, commovente immedesimazione nei tre caratteri fa da eccezionale contraltare la parte narrativa: passaggi che, estratti dai regolamenti dei seminari, ritraggono le condizioni grottesche nelle quali venivano educati i seminaristi.
La lettura di questi brani è svolta con una voce sostenuta, monocorde e via via sempre più di testa, a sottolineare anche con la tecnica teatrale una presa di distanza da quel ferreo metodo di formazione. Tali regole sono esposte in modo da ottenere un effetto umoristico, da far sorridere o anche ridere, ma solo dopo aver provato un sentimento di pietà (o sentimento del contrario, per dirla con Pirandello) nei confronti di quei ragazzi che le hanno vissute sulla loro pelle.
Il ritmo dello spettacolo è ben cesellato. Giuliana Musso è coadiuvata da un folto numero di collaboratori che calibrano con precisione certosina i momenti narrativi e quelli di interpretazione, ed anche i “vuoti”, riempiti da proiezioni di foto d’archivio e con accompagnamento musicale (Giovanni Panozzo, Daniele Silvestri, Massimo Serli e Maxmaber Orkestar, Mario D’Azzo, Tiromancino), sono suggestivi ed emozionalmente carichi.
L’ultima immagine – che ovviamente in una recensione non va svelata – racchiude l’essenza del senso dello spettacolo. Giuliana Musso, non più come attrice ma come donna, lascia un segno di pietà e d’affetto nei confronti delle persone che ha raccontato, preti bisognosi di sentimenti che spesso sono loro stati negati da una religiosità malata: la comprensione, la compassione, il calore umano, l’amore vero. Un lascito che coglie nel segno.
Il lavoro di Giuliana Musso è da sempre teso ad alzare il velo su storie dimenticate o nascoste, bisognose di essere riportate alla luce. Un teatro d’indagine che nasce quando sente l’urgenza di un tema e si nutre del materiale vivo delle esperienze umane dei testimoni, che come un etnografo l’attrice raccoglie e ascolta in profondità. Negli spettacoli confluiscono poi le storie più adatte a raccontare quell’urgenza.
Ne “La fabbrica dei preti” Giuliana Musso raggiunge il suo picco artistico più alto perché riesce a calarsi con verità in tre personaggi maschi, ad emozionare per la profonda comunione di sentimenti con essi, a dosare con sapienza e versatilità i momenti drammatici a quelli umoristici, a lanciare un messaggio d’amore profondamente personale e allo stesso tempo universale.