L’ospedale di Cavalese sarà un poliambulatorio
...ma privando di servizi la montagna la si condanna a una lunga agonia
Siamo arrivati al punto di non ritorno. L’Ospedale di Cavalese termina la sua funzione di servizio alle genti di Fiemme e Fassa, dopo 60 anni di straordinarie opportunità offerte ai residenti delle due valli e a migliaia di ospiti. L’Azienda Sanitaria provinciale ha impiegato oltre vent’anni per raggiungere questo obiettivo.
La tenace resistenza dei residenti, l’azione di qualche sparuto gruppo politico fino ad oggi aveva impedito, o perlomeno rallentato, tale conclusione. Ma la determinazione dei dirigenti di Trento, il lavoro certosino a livello ragionieristico portato avanti da questi e da amministratori provinciali incapaci di comprendere la montagna (Donata Borgonovo Re in particolare) hanno definito nel peggiore dei modi una conclusione attesa. Anche in questi ultimi giorni c’è stato grande movimento sul tema del punto nascite. Con la scusa di non trovare pediatri disponibili a salire a lavorare a Cavalese sembra non vi siano le condizioni minime per tenere aperto il reparto di ostetricia e ginecologia. Gli stessi politici che oggi si strappano le vesti nel tentativo di mantenere attivo il reparto sono stati protagonisti, con il loro lungo silenzio, della morte dell’ospedale; parliamo dei politici locali: Gilmozzi, Degaudenz, Lozzer, Detomas, quindi UPT e PATT, ma il partito della centralizzazione senza dubbio è il PD.
Il balletto dei milioni
È dal 2005 che vengono promessi soldi per la ristrutturazione muraria dell’ospedale di Fiemme. L’inadeguatezza degli spazi delle sale operatorie, del laboratorio di analisi, del Pronto Soccorso da tempo sono evidenti. A suo tempo si promisero 13 milioni di investimenti, diventati 5 nel 2013 (campagna elettorale), fino all’ultima sparata dell’ospedale nuovo (23 milioni) in preparazione della prossima campagna elettorale provinciale. Ma a parte la sistemazione di qualche risibile spazio esterno e l’aggiunta di microambulatori, finora nulla è stato concretizzato.
La ricordate la casa della salute, un edificio che avrebbe dovuto accogliere gli ambulatori di valle e aprire alla riabilitazione, che doveva nascere a Predazzo? Nessuno più ne parla. Non casualmente a Predazzo il centro salute è stato allestito da privati, e funziona, ovviamente. Grazie alle disfunzioni dell’offerta pubblica e a spese di tutti noi cittadini. Ritornando all’ospedale, è a tutti evidente che un nosocomio moderno, capace di garantire sicurezza ai pazienti e agli operatori, debba offrire spazi di lavoro e ospitalità adeguati. La ristrutturazione muraria dell’Ospedale di Fiemme doveva essere una priorità della valle. Ma i nostri politici pensano ancora oggi a come offrire respiro ai cementificatori e agli impiantisti.
In questi anni l’Azienda Sanitaria ha fatto il possibile per demolire altri servizi fondamentali per il funzionamento di un ospedale: il laboratorio è stato privato di figure professionali qualificate come il direttore, mentre il personale che va in pensione non viene sostituito. Inoltre gran parte della microbiologia e analisi neanche tanto complesse vengono deviate su Trento. Questa dequalificazione di tutti i laboratori delle periferie trentine è tesa forse a favorire interessi di privati, vedi il laboratorio L’Adige, collegato a imprenditori austriaci? Una domanda che ci facciamo senza voler essere provocatori. Ma anche radiologia ha perso la sua indipendenza: gran parte degli esami radiologici vengono controllati a Trento, senza che il tecnico o il medico primario possano avere un confronto diretto col paziente.
Teniamo presente che stiamo parlando di una vallata sulla quale ricade una pressione straordinaria su patologie ortopediche e traumatologiche. Entrare poi nel Pronto Soccorso in giorni turistici è un’avventura, sia per il paziente gravato da urgenza che per i suoi parenti. Gli ambulatori sono spazi minimali, il corridoio diventa una ressa dove il personale di servizio stenta a passare.
Il colpo mortale alla funzionalità dell’Ospedale di Fiemme è stato inferto dalle decisioni degli ultimi assessori, Borgonovo Re e Zeni. Da alcuni mesi le sale chirurgiche possono funzionare solo dal lunedì al venerdì, dalle 8 alle 18, causa, si dice, la carenza di anestesisti. Il lavoro si svilupperebbe su 50 ore la settimana (invece delle potenziali 168): in presenza di tale drastica decisione, è evidente come non si possa portare in sala chirurgica un paziente alle 16 sapendo che alle 18 tutti gli operatori dovranno andarsene. Questa situazione ha diffuso nella valle una ovvia caduta di fiducia verso la funzionalità del nosocomio. Infatti, se nel 2015 i parti erano stati 232, nel 2016 sono passati a 80, un crollo verticale. La pietra tombale per l’ospedale è così stata sistemata, come da anni auspicato dall’Azienda Sanitaria.
I medici
Dalle città le reazioni sono unanimi nel plaudire a quanto sta avvenendo nelle periferie trentine. Comprensibili quelle provenienti dall’Ordine dei medici (Marco Ioppi); quella dei medici sembra ormai una cultura sempre più distante dal giuramento di Ippocrate, dalla offerta di un servizio egualitario diffuso. A leggere i giornali, sembra prevalere un’attenzione corporativa che bada soprattutto agli aspetti economici. Si possono giustificare i giovani medici che diffidano del lavoro in periferia, chiedono sicurezza, sono consci della loro impossibilità di apprendere dall’esperienza di medici pediatri esperti, si sentono gettati in un disegno più grande di loro, anche perché sanno di non poter fare affidamento su certezze minime: gestione di servizi complessi, una chirurgia collegata ad anestesia e reperibilità su più competenze. È comprensibile che non si scelgano luoghi di lavoro basati sulla precarietà assoluta, con la chirurgia chiusa per due terzi dei tempi utili. Si dice anche che non si possono mandare pediatri in periferia perché si sguarnirebbero Rovereto e Trento. Anche qui è ovvio come questi due ospedali si siano trovati sovraccaricati di impegni dopo le chiusure del San Camillo, di Tione, Arco e Cavalese. I medici, quando scrivono, troppo spesso e non sempre con cognizione di causa sul tema della qualità del vivere, si appellano a una “scelta di civiltà”. A noi pare una civiltà egoistica quella da loro auspicata, quasi un interesse privato. Dicano chiaramente che a loro la vita in montagna non interessa, che gli appare povera, arida, inadeguata.
Parola d’ordine: centralizzare
Se questo modo di vedere è comunque comprensibile, ha invece dell’incredibile la posizione dei sindacati, della CGIL in particolare, da sempre favorevole alla chiusura degli ospedali periferici. Una volta si pensava che lo scopo sociale del sindacato, oltre a difendere il lavoratore, fosse quello di diffondere lavoro e sostenere i servizi al cittadino. Ma questo sindacato sembra abbia abdicato ai valori fondativi: è composto da cittadini che, come i medici, amano la città, la comodità. In una provincia come Trento è più semplice seguire il lavoro in due realtà, Trento e Rovereto, invece che essere impegnati in lontane realtà di valle. Chi vive in città è compatto: partiti con in testa il PD (il partito delle città), ordini professionali (infermieri e medici), giornalisti, sindacati, tutti lavorano per centralizzare servizi e quindi anche la sanità.
A queste categorie sociali sfugge che impoverendo le vallate delle prestazioni sanitarie di qualità le si impoverisce di alte professionalità, quindi di cultura, di opportunità lavorative. Sfugge anche che i costi della centralizzazione vengono pagati da chi vive in periferia: viaggi lunghissimi, giornate di lavoro perdute dai famigliari per assistenze, traffico, inquinamento. Sfugge che tante volte gli elicotteri non siano disponibili, o perché impegnati in emergenze, o perché bastano tre centimetri di neve (gennaio 2017), o la nebbia a tenerli a terra. Perfino le ambulanze non offrono certezze: in proposito, è opportuno ricordare l’inverno 2013-2014. Da tempo sembra che tutto debba concentrarsi in quel di Trento, escluso lo svago, il turismo.
Alcune domande
Concludiamo proponendo al lettore alcune domande, che non riguardano solo Cavalese, ma anche Tione.
Perché una provincia minimale, periferica come il Trentino, deve spendere ingenti risorse su Protonterapia incapace di decollare nonostante l’inserimento nei LEA?
Come è possibile offrire specializzazioni di alto profilo alla sanità delle periferie se non ci sono anestesisti e le sale chirurgiche funzionano a intermittenza?
Siamo sicuri che si investa in sicurezza con la centralizzazione? E quando accadrà che mamme o bimbi muoiano causa l’assenza del servizio in periferia, come si riuscirà a ripristinare quanto funzionava fino al 2014? Ci spieghino medici e sindacati cosa significa per loro, cittadini, il termine sicurezza quando si deve ricorrere a Trento, come accaduto nei giorni scorsi, per un banale shock anafilattico.
Perché le periferie non hanno diritto di avere sul territorio professionalità sanitarie di alto profilo? E dove sta il diritto costituzionale di eguaglianza nella diffusione dei servizi ai cittadini? Dove è finito il principio di solidarietà che i cittadini devono a chi vive nelle vallate? E il significato più profondo dell’autonomia è legato alle rivendicazioni nei confronti dello Stato o non deve invece essere diffuso su tutto il territorio?
Questi sono solo alcuni dei temi che lo scontro in atto fra gli ospedali cittadini e delle vallate sta sollevando. Sono temi che meritano risposte, nelle valli ci si aspetta rispetto. Quanto sta accadendo in Trentino fa il gioco della Lega e del grillismo. La politica, quella seria, dovrebbe essere capace di mediazioni alte e avere capacità di risolvere le esigenze prioritarie di chi vive nelle nostre valli. Ma in Trentino questa politica non la si incrocia.