Due ritorni a casa
“Il cittadino illustre” di Mariano Cohn e Gastón Duprat, “È solo la fine del mondo” di Xavier Dolan
Campo medio, ripresa fissa. Un uomo dall’aria affranta si siede su una panchina davanti al basso muretto di cinta di un giardinetto. Dalla semplice casa alle sue spalle esce un anziano con una tazza di mate, la offre all’uomo e torna indietro verso la casa dove l’aspetta la moglie, le posa affettuosamente una mano sulla spalla e insieme rientrano in casa.
Nulla, pare, ma è una sequenza di grande intensità del film “Il cittadino illustre”, che racconta il ritorno dello scrittore, il premio Nobel Daniel Mantovani, a Sales, sperduto paese argentino di cui è originario. La sequenza è soprattutto un chiarimento, una importante parentesi nel feroce atto d’accusa verso l’Argentina e gli argentini che è il film. Il ritorno per una conciliazione con quel mondo e con se stessi, in realtà si evolve in accusa verso i soliti padroni, maggiorenti, politici, ignoranti, presuntuosi, nazionalisti, ipocriti che si presentano amici ma sono solo opportunisti approfittatori, vigliacchi vendicativi. In definitiva coloro che hanno fatto scappare il protagonista, fin da giovane, intellettuale sensibile e complesso. Ma ecco il distinguo: non tutti sono così, non i pochi anziani, i semplici, i sognatori, e la sequenza del mate appare quindi una specificazione importante che focalizza il film in modo preciso. Lo equilibra e universalizza.
Mantovani non ci voleva tornare a Sales, fonte d’ispirazione di tutte le sue opere letterarie. Invece decide di accettare l’invito del sindaco, non certo per ritirare l’onorificenza di cittadino illustre, piuttosto per capire se il ritorno dopo tanti anni avrebbe sbloccato la crisi creativa che lo affligge da tempo. Anche nello sperduto paese ora le auto sono più moderne, le case più belle, tutti hanno il telefonino. I conoscenti sono invecchiati, ma la sostanza è rimasta uguale. Forse peggio. I padroni fanno sempre i prepotenti, gli ignoranti obbediscono, la maggioranza è apparentemente indifferente, i deboli subiscono e gli intellettuali devono andarsene.
È perfettamente riuscito l’intento dei due registi, Mariano Cohn e Gastón Duprat, di sviluppare un film dal ritmo tanto piano e inesorabile quanto pieno di colpi di scena. Un’ opera in cui lo sguardo, senza essere accusatorio, emerge progressivamente sempre più critico nello sviluppo di situazioni assurde, grottesche, kitsch, patetiche, spaventose e violente. In parallelo si evolve la condizione emozionale del protagonista, e con lui degli spettatori, che da affettuosa, comprensiva, condiscendente, divertita, vira progressivamente verso il perplesso, deluso, indignato, rabbioso, a recuperare tutte le antiche motivazioni alla fuga. Un film straordinario, ricchissimo di elementi e invenzioni, interpretato alla perfezione. Giusto candidato all’Oscar per l’Argentina e auspicabile vincitore.
Viene invece dal Gran Premio della Giuria dell’ultimo festival di Cannes “È solo la fine del mondo” del giovanissimo regista canadese Xavier Dolan (che ricordiamo autore del notevole “Mommy”). Film che si può associare, come il soprascritto, al sottogenere: “ritorno a casa”.
Louis, anche lui un affermato scrittore, ma di teatro, giovane e introverso, dopo tanti anni di assenza, torna. Non nello stato o nella città d’origine, ma proprio nella casa materna, dove trova ad attenderlo la famiglia: madre logorroica, fratello maggiore aggressivo, fragile sorella minore, smarrita e insicura cognata. Un quadro complessivo ad alto tasso di nevrosi. Louis ha una notizia da confessare, ma le condizioni per la sua dichiarazione non si producono mai. Risulta così progressivamente sempre più chiaro che l’interesse del film non è disvelare verità, ma ritrarre le disturbanti dinamiche di una famiglia in cui discorsi, comportamenti e conflitti sono destinati a non essere ascoltati, compresi e men che meno risolti. Purtroppo i personaggi risultano fin troppo caratterizzati, univoci e in definitiva poco credibili nella loro dimensione così forzosamente emblematica.
Va comunque riconosciuta al regista la personale scelta stilistica di evadere dalla forma teatro accentuando proprio scene e dinamiche teatrali con primi piani stretti, quasi claustrofobici, lunghe sequenze a inquadratura fissa, dialoghi intensi. Sfortunatamente a tratti il tutto risulta inutilmente faticoso, attenuando la forza di un testo dai non pochi scambi fulminanti e profondi.