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“Cirano di Bergerac”

Un testo sempre attuale

Lucrezia Barile

Quando avevo sedici anni, mi capitò di andare per caso ad un concerto di Guccini. Ne conoscevo soltanto una canzone, niente di più. I miei amici più grandi ne erano fan veterani, era avanzato un biglietto, decisi di prenderlo. Al massimo la musica non mi sarebbe piaciuta, ma sarei stata comunque in buona compagnia, pensai. Affittammo addirittura un furgoncino per andare a vederlo fuori porta.

“Cirano di Bergerac”

Il concerto non mi deluse, anzi ne rimasi folgorata e iniziò la mia passione per il cantautore. Il pezzo forte, quello che più tirava dell’album presentato da Guccini quell’anno, si chiamava “Cirano”. Diventò una specie di tormentone per noi. Raccontava del famoso cadetto di Guascogna, impietoso contro le persone dal naso corto, abile con le parole, spietato con i conformisti, i politici, i primi della classe, le mezze calze. Ma era anche una canzone d’amore, di solitudine e di verità. La storia di quell’eroe militante, solo contro le apparenze e l’ignoranza, che odia la gente che non sogna e capace di un atto d’amore segreto fino alla morte, mi sembrava stupenda, era l’emblema di tutto quello in cui credevo e per cui mi battevo. Mi comprai il libro col testo di Rostand e lo portai, sottolineato, per parecchio tempo in borsa.

Da allora sono passati due decenni. Tante cose sono cambiate, tranne quegli amici. Un paio di settimane fa ho letto che al Santa Chiara di Trento, nell’ambito del progetto “Utopia500”, avrebbero rappresentato “Cirano di Bergerac”, gratis fino ad esaurimento posti. Non l’avevo mai visto a teatro. Sebbene nei vent’anni passati da quel concerto altri eroi e altre passioni, anche musicali (qualcuno dirà per fortuna) si erano affacciate nella mia vita, ho sentito in un certo senso il dovere di andare a vederlo. In sala c’erano persone di tutti i tipi e di tutte le età, molte famiglie e soprattutto molti ragazzi, sicuramente anche qualche sedicenne. È probabile che in parte ciò fosse dovuto alla gratuità dell’ingresso, ma anche certamente al richiamo di uno spettacolo che ha girato tutta l’Italia, giunto al suo ventennale, messo in scena da Corrado d’Elia, attore e regista con esperienza di direttore artistico in molti teatri italiani. Credo però che non sia da sottovalutare la potenza che ancora può avere un testo come quello di Rostand, una storia abusata per certi versi, arcinota e anche un po’ vecchiotta, ma ancora capace di raccontare tanto del mondo e di come esso funziona. Insomma, dalla fine dell’Ottocento quando è stato scritto (anche se, lo ricordo, è ambientato nel 1600), al 1996 quando Guccini lo cantava, io compravo il libro e Corrado d’Elia metteva in scena per la prima volta il suo spadaccino, mi sembra che sia passato un tempo ragionevole per poter affermare senza retorica che si tratti di un testo ancora attuale. Senza contare una serie di trasposizioni cinematografiche e di altre versioni teatrali che negli anni l’hanno reso celeberrimo.

La rara capacità di guardare oltre l’evidenza e l’aspetto estetico, la solitudine che costa uno sguardo fuori dal gregge, la mancata resa ad una forma comune tanto comoda quanto ottusa, il sogno come possibilità. Questo è Cirano. Più che attuale, senza tempo. Questo il merito di Corrado d’Elia, quello di credere nella riproposizione di uno dei personaggi più belli della letteratura mondiale e di continuare a condividerlo, negli anni, con un pubblico sempre diverso.

Una delle caratteristiche più evidenti dello spettacolo sono i momenti di intensa fisicità e vivacità di movimento che attraggono gli occhi della platea da un punto all’altro del palcoscenico: il botta e risposta delle battute in prosa corrisponde all’incessante cambiamento di posizione degli attori, come in una specie di duello visivo e allo stesso tempo uditivo. Peccato soltanto per le prime battute, subito all’inizio della prima scena, che si sono perse in un attacco un po’ sottotono.

Un cenno va riservato a “Utopia500”, un progetto della casa editrice Il Margine e della Provincia di Trento che, per onorare i 500 anni della pubblicazione di “Utopia” di Thomas More, coinvolge diversi enti culturali trentini per fare in modo, come detto sulla pagina web del progetto, che “l’isola che non c’è (…) diventi una potente spinta, soprattutto per i giovani, a progettare un futuro migliore per la terra che c’é”. Ora, queste ultime sono parole forti e il fatto che vengano da un progetto che coinvolge anche le istituzioni che contribuiscono a creare il mondo che c’è (di rado a cambiarlo) potrebbe essere una contraddizione in termini, tuttavia le iniziative messe in campo sono piuttosto interessanti (l’invito è a visitare il sito di “Utopia500”) e, diffidenze a parte, offrono quanto meno la possibilità di confrontarsi con diversi temi e con nomi di una certa rilevanza in vari ambiti. Poi ognuno porta a casa quel che crede, non così scontato è averne la possibilità.

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