Sì o no? O astensione?
Le tre opzioni illustrate da un parlamentare, da un docente universitario e da un redattore di QT
Giorgio Tonini: un testo chiaro, che produce alcuni positivi effetti fondamentali
La campagna referendaria sta producendo una fitta agenda di dibattiti, che vedono un’ampia e diffusa partecipazione di cittadini. Da parte dei sostenitori del No vengono sollevate tre obiezioni principali alla riforma, che meritano una risposta al tempo stesso rispettosa e schietta da parte di chi come me sostiene le ragioni del Sì.
La prima obiezione, la più radicale, afferma che il combinato disposto di riforma costituzionale e riforma elettorale indebolirebbe le garanzie democratiche e concentrerebbe troppo potere nelle mani di un uomo solo.
Questa tesi non ha nessun riscontro nel testo della riforma costituzionale e neppure di quella elettorale (che peraltro non fa parte della Costituzione e non è quindi oggetto del referendum). La riforma produce due effetti fondamentali: assegna alla sola Camera dei deputati (e non più anche al Senato) il potere di dare e togliere la fiducia al governo; attraverso la legge elettorale (che peraltro la riforma stabilisce sia valutata preventivamente dalla Corte costituzionale) introduce un meccanismo maggioritario di trasformazione dei voti in seggi che produce con certezza un vincitore.
Questi due interventi, combinati tra loro, garantiscono un risultato molto importante: saranno gli elettori, col loro voto, a decidere chi deve governare, rendendo possibile un governo di legislatura. Tutto il resto rimane inalterato: non cambiano i poteri del presidente del Consiglio, non viene introdotta neppure la sfiducia costruttiva, non viene abolito nessun contrappeso e i quorum previsti per eleggere (a scrutinio segreto) il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e il Csm restano matematicamente irraggiungibili per la sola maggioranza di governo.
Non è tutto: la riforma introduce un contrappeso in più, tutt’altro che marginale. È il nuovo Senato, che diventa camera di rappresentanza delle Regioni e dei Comuni. Al posto degli attuali 315 senatori, che escono di scena (315 parlamentari nazionali in meno su 945), prenderanno posto sugli scranni di Palazzo Madama cento tra presidenti o consiglieri regionali e sindaci. Quale sia il loro compito lo stabilisce il nuovo articolo 70, quello che ha attirato su di sé la seconda famiglia di critiche: quelle che dicono che il nuovo Parlamento sarà ingovernabile e porterà alla paralisi del sistema. In realtà il nuovo articolo 70 è un testo, certo noioso da leggere, ma di assoluta chiarezza.
Esso divide le leggi in due grandi gruppi: quelle che hanno a che fare col governo ordinario del paese e quelle che invece stabiliscono le regole del gioco democratico. Le prime (la stragrande maggioranza) diventeranno di esclusiva competenza della Camera e su di esse il Senato potrà solo esprimere pareri non vincolanti, dunque avremo una procedura molto più rapida per l’approvazione della legislazione ordinaria. Cadrà così l’alibi che ha portato all’abuso della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia, e infatti la riforma rende assai più restrittivi i criteri per l’emanazione dei decreti legge.
Le leggi che invece fissano le regole del gioco, a cominciare dalla Costituzione, dalle leggi costituzionali, da quelle elettorali (per il Senato e per i Comuni) e da un certo numero di altre ben individuate leggi di sistema, saranno approvate solo col consenso di entrambe le Camere. Questo significa che, a differenza di oggi, per modificare queste leggi di sistema non basterà più la maggioranza che sostiene il governo, ma servirà anche la maggioranza della rappresentanza del sistema delle autonomie, raccolta nel nuovo Senato. Un potente contrappeso, che non solo falsifica la teoria dell’uomo solo al comando, ma accentua il carattere pluralistico e autonomistico della nostra Costituzione.
Regioni ordinarie e Regioni autonome
La terza obiezione riguarda il trattamento riservato alle autonomie speciali. Qui i sostenitori del No rasentano la schizofrenia. In giro per l’Italia, facendo leva sul nobile sentimento dell’invidia, deplorano il trattamento di favore riservato alle autonomie speciali, liquidato come la blindatura di privilegi anacronistici. In Trentino-Alto Adige invece puntano sulla paura: la riforma non blinda un bel niente, finiremo assimilati alle Regioni ordinarie, a loro volta vittime di una restaurazione centralista.
In realtà uno dei pregi migliori della riforma è proprio quello di superare lo steccato tra ordinarie e speciali, aprendo una fase di rinegoziazione ispirata al principio di sussidiarietà: individuare regione per regione il livello di autonomia ottimale dal punto di vista dei cittadini. Così, grazie al rafforzamento del 116 e al nuovo Senato, le ordinarie più capaci di effettivo autogoverno potranno farsi riconoscere più ampi margini di autonomia, avvicinandosi molto alle autonomie speciali, mentre a loro volta le speciali saranno chiamate a ridiscutere con lo Stato il loro assetto, attraverso una procedura di intesa finalizzata alla individuazione, in un quadro di leale collaborazione che non contempla né diktat né veti, del punto di equilibrio credibile, che non potrà che essere diverso tra regione e regione. A questo confronto, Trento e Bolzano potranno andare senza paura, forti delle loro ragioni: dalla tutela internazionale, ai risultati lusinghieri prodotti dalla nostra riconosciuta capacità di autogoverno.
Roberto Toniatti: un’occasione persa per una buona revisione costituzionale
Un atto normativo significativo quale una legge di revisione costituzionale di portata così vasta come quella sottoposta al prossimo referendum esprime – come e più di altre leggi – sia un contenuto giuridico di disciplina di singoli organi, competenze e procedure, sia una decisione politica di qualificazione del sistema nel suo complesso. Una buona legge costituzionale, pertanto, dovrebbe presentare un’adeguata chiarezza normativa e una puntuale coerenza fra la visione di sistema e le norme che a quest’ultima danno attuazione, attraverso la disciplina dell’apparato istituzionale. Purtroppo, l’attuale legge costituzionale di riforma non presenta, a mio giudizio, né l’uno né l’altro carattere: essa è, di volta in volta, imprecisa, vaga, confusa, pasticciata, incoerente, approssimativa, inaffidabile.
L’idea di superare il bicameralismo perfetto, di circoscrivere alla sola camera democraticamente eletta il rapporto fiduciario con il governo e la garanzia della stabilità dell’esecutivo, di destinare la seconda camera alla rappresentanza (diretta e di primo grado) degli interessi delle autonomie territoriali, di razionalizzare la ripartizione delle funzioni fra governo centrale e governi regionali nella fase di produzione delle leggi dello Stato anche al fine di ridurre se non di eliminare il contenzioso costituzionale, di disegnare il regionalismo quale risultante di un patto costituente fra Regioni e Stato con conseguente attribuzione alle prime di funzioni determinanti – quale ad esempio la revisione costituzionale – corrisponde a una visione sistemica apprezzabile e condivisibile.
Il problema di fondo è che l’attuale riforma non esprime una attuazione conseguente rispetto a tale visione, non assicura nessuno di questi risultati e pertanto, a mio giudizio, non è che un goffo e maldestro tentativo di garantire centralismo di indirizzo politico e uniformità normativa, di attribuire funzioni che non potranno essere esercitate seriamente, di adattare le norme alle degenerazioni del sistema politico anziché viceversa, nel presupposto che gli apparati centrali dello Stato siano retti da integrità, capacità ed efficienza di governo, trasparenza e indipendenza nella determinazione dell’interesse generale, mentre quelli regionali sarebbero, senza distinzioni, centri di corruzione, inefficienza e malaffare.
Il Senato, ad esempio, non viene configurato come sede di rappresentanza politica unitaria degli interessi regionali: i 95 consiglieri regionali-senatori e i sindaci-senatori, infatti, eletti dai Consigli regionali senza vincolo di mandato, fungeranno soprattutto da sede romana di rappresentazione dei sistemi partitici locali, incapaci – senza loro colpa - di trovare in Senato una mediazione delle rispettive interpretazioni dell’interesse regionale che li contrappone in seno al Consiglio. La doppia funzione, inoltre, andrà a discapito dell’una o dell’altra, se non di entrambe, se esercitate con impegno e serietà.
In mano ai tecnocrati?
Una tale configurazione – connessa anche alla discontinuità del mandato dovuta al fatto che la condizione di senatore si perde al venir meno della titolarità del seggio consiliare ovvero della carica di sindaco - produce una preoccupante perdita di professionalità dei senatori e pertanto del Senato, salvo potenziare molto i servizi parlamentari, con conseguente aggravio dei costi delle istituzioni e incremento della quota di tecnocrazia sottratta a forme di legittimazione democratica: atteso che non risulta agevole comprendere cosa siano le “funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica” (art.55), che cosa ci si aspetta e come si pretende che tali funzioni vengano esercitate da chi ha ricevuto un mandato elettivo per svolgere ben altre funzioni? Lo stesso vale per l’altra funzione di valutazione delle “politiche pubbliche e [delle] attività delle pubbliche amministrazioni” nonché di “verifica [dell’]impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori” e di verifica della “attuazione delle leggi dello Stato”. Se mai tali attività riuscissero ad essere svolte, il controllo privo di almeno una mozione di censura nei confronti dell’esecutivo sarebbe una pistola caricata a salve.
Si consideri ancora come il tanto osannato (e propagandato) superamento del bicameralismo paritario preveda in realtà che il procedimento perfettamente paritario prosegua esattamente come ora (senza, pertanto, poter evitare di ricorrere alla navetta tra una camera e l’altra in caso di disaccordo) per almeno 21 categorie di leggi e materie, e che per tutte le altre leggi il Senato possa chiedere di esaminarle e votarle, salvo nell’ipotesi di disaccordo, stabilire, dopo la terza lettura, la prevalenza della volontà della Camera dei deputati.
Un’altra indicazione di riforma strampalata e non corrispondente alle potenzialità.
Quanto alle Regioni...
Il medesimo giudizio critico può applicarsi al processo di ri-centralizzazione delle competenze regionali rispetto alla regionalizzazione posta in essere dalla riforma del 2001, non compensato dalla previsione di un Senato che sia davvero una camera degli interessi territoriali in grado di partecipare alla definizione dell’interesse nazionale in sede bicamerale.
Una grande incertezza, inoltre, concerne anche le autonomie speciali: in proposito, l’unico dato certo è la presenza di una clausola sospensiva (art. 39 delle disposizioni transitorie) che dispone che la riforma costituzionale non si applica interamente e con immediatezza, come per tutte le altre Regioni, anche alle autonomie speciali, ma che l’applicazione è rinviata sino alla revisione dei rispettivi statuti speciali da adottarsi con legge costituzionale dello Stato “sulla base di intese con le medesime Regioni a statuto speciale e Province autonome” (comma 13).
L’intesa, pertanto, è destinata a fungere, potenzialmente, da filtro fra l’applicazione differita della riforma costituzionale anche alle autonomie speciali e i limiti di tale applicazione.
Peraltro, l’istituto della “intesa statutaria” in relazione ad una fonte costituzionale – pur previsto già dal progetto di riforma del centro-destra del 2006, poi respinto in sede di referendum confermativo – è un’assoluta novità quanto alla sua applicazione concreta e, in questa fase pre-referendaria, non è dato sapere, in base al testo, quanto forte sia destinata ad essere la garanzia giuridica della libertà di partecipazione delle due Province autonome alla determinazione del contenuto del proprio prossimo Statuto speciale. Sarebbe stato utile predisporre una disciplina rassicurante sin d’ora ma, in assenza di quest’ultima, l’unico fondamento sicuro può essere rappresentato dall’ancoraggio internazionale e dalla fiducia politica nell’attuale maggioranza di governo.
La ricognizione delle criticità del progetto di revisione costituzionale potrebbe continuare, con riferimento a ciascuno degli aspetti caratterizzanti della riforma. È doloroso ammettere che, se questo è il meglio che il parlamento è stato in grado di esprimere, siamo di fronte ad un ulteriore sintomo del declino italiano.
Mauro Bondi: un non voto convinto contro una classe politica che, con poche eccezioni, non mi rappresenta.
Il referendum costituzionale per cui siamo chiamati a votare è una sorta di bomba a orologeria piazzata sotto la poltrona di Renzi, ma il 4 dicembre, giorno del voto, è anche – probabilmente non a caso - Santa Barbara, patrona degli artificieri, tecnici preposti a disinnescare gli ordigni esplosivi. A fianco di coloro che quella bomba desiderano disinnescarla ci sono però anche quelli che non esiterebbero a farla esplodere e così da qui a un mese ne vedremo di tutti i colori. Personalmente ho scelto di non andare a votare e non credo cambierò idea da qui al 4 dicembre e provo a spiegarne le ragioni.
La mia generazione ha sempre messo la politica e il voto ai primi posti tra i valori della vita civile e democratica, per cui il non recarsi alle urne per votare (un diritto prima ancora che un dovere) è una scelta difficile da accettare e complicato da spiegare.
Da quando sono maggiorenne ho votato in vari modi: per convinzione ideologica, per fiducia nel candidato, turandomi il naso e, infine, non più per una idea e/o una persona ma contro un’idea e/o contro una persona. Ora da qualche anno non ho più neppure questa magra e poco edificante motivazione.
Purtroppo, e sottolineo il purtroppo, da molti anni ho fatto la scelta di non andare a votare, non per una volontà ideologica “antipolitica” di rifiuto pregiudiziale, ma per la consapevolezza di non riuscire a trovare né un partito né una persona a cui dare fiducia. Nei referendum poi, il “non voto” in via generale è ancora più difficile da spiegare, in quanto in campo c’è una questione specifica, un tema preciso; ma ci provo lo stesso.
Per anni, specie nel mio ruolo, ormai facente parte del passato remoto, di assessore alle Riforme Istituzionali, ho avuto spesso difficoltà a spiegare quanto fossero importanti i sistemi elettorali e quindi le regole istituzionali che governano uno Stato, una Regione, una Provincia o un Comune. Le critiche e le obiezioni erano sempre le solite: “Con le riforme istituzionali non si va da nessuna parte”, “non risolvono i problemi concreti dei cittadini dal lavoro all’assistenza sociale, alla sanità” etc.
Allora spiegavo come le riforme istituzionali sono per il politico quello che per un artigiano è una buona cassetta degli attrezzi: se l’artigiano, anche bravo, non ha gli strumenti necessari non potrà aggiustare una finestra o sistemare una caldaia. Lo stesso dicasi per un politico: senza gli strumenti adatti (istituzioni funzionanti), anche il politico competente non potrà ottenere risultati concreti e positivi.
L’argomento aveva una sua presa e infatti riuscivo in qualche modo a essere convincente sull’importanza delle riforme istituzionali che, seppure astratte, si tramutavano poi in risultati concreti.
Oggi ho cambiato idea
Oggi mi si potrebbe rivolgere contro gli stessi miei argomenti: non votando svaluto l’importanza degli strumenti istituzionali, alias i buoni attrezzi dell’artigiano, in grado di risolvere i problemi concreti. Purtroppo non la penso più così, o meglio, rimanendo nella metafora, penso che se l’artigiano non è bravo e competente non sarà comunque in grado di riparare una finestra, neppure avendo a disposizione gli strumenti migliori. Allo stesso modo se il politico non è bravo e competente, qualunque siano gli strumenti a disposizione i risultati non ci saranno. A mio parere la classe politica che oggi ci governa (generalizzo ben sapendo che ci sono, pochissimi, politici che cercano di opporsi alla marea travolgente dell’incompetenza, della corruzione e del menefreghismo) non è brava e nemmeno competente, è insomma incapace, quali che siano le regole, di “aggiustare” il sistema Italia.
Tanto per fare un esempio: entrambi gli schieramenti hanno avuto Governi con maggioranze parlamentari schiaccianti, ma con esiti neppure coerenti con i propri obiettivi.
Un altro motivo del mio non voto, specifico di questo referendum, è che ormai il quesito non riveste più alcun significato in sé. Il testo della riforma Boschi infatti prevede, tra l’altro, l’abolizione del bicameralismo paritario e del Cnel, la riduzione del numero dei parlamentari, la modifica del quorum per l’elezione del presidente della Repubblica e l’aumento del numero delle firme necessarie per proporre una legge di iniziativa popolare. Tutte questioni interessanti ma certo non tali da trasformare il quesito in una bomba politica, se non fosse che il referendum è diventato ormai, come spesso accade in Italia, terra di Guelfi e Ghibellini, milanisti e interisti, per confermare e/o abrogare il governo Renzi: per cui se voti Sì sei con il capo del Governo, se voti No sei contro di lui: giochetto al quale non intendo minimamente partecipare.
Immagino che avrò convinto pochi lettori di Questotrentino che, per la storia stessa del giornale, fanno parte di quella schiera di persone per cui l’impegno politico e il recarsi alle urne è quasi un sacro dovere. Resto però della mia idea che ormai è condivisa da quasi la maggioranza assoluta degli italiani. Inoltre non mi recherò alle urne per votare scheda bianca proprio per cercare di dare quel minimo di segnale politico che il non recarsi alle urne ancora ha rispetto alla scheda bianca e/o annullata, anche perché queste ultime non vengono conteggiate nel novero della percentuale di chi non vota per una scelta precisa di protesta politica.
Per queste ragioni ritengo il mio “non voto” come in realtà un voto preciso, consapevole e convinto contro una classe politica che, fatte poche meritevoli eccezioni, non mi rappresenta. Forse neppure se ne accorgeranno ma ci spero, soprattutto se saranno in tanti a condividere il mio pensiero.