QT riabilitato, Zanoni no
Due sentenze sul caso LaVis: la Corte d’Appello conferma in pieno la correttezza delle nostre inchieste e condanna LaVis e Zanoni a pagarci le spese. E il primo grado penale condanna ancora Zanoni, come Commissario troppo distratto.
“Devolveremo il risarcimento alla Cantina” dichiarava nell’ottobre 2012 l’allora Amministratore Delegato della LaVis Marco Zanoni. Magnanimo, il grande manager: i 480.000 euro che si riprometteva di estorcere a chi scrive e a QT (attraverso una causa civile per pubblicazione di notizie false e diffamatorie) non voleva intascarli lui, no per carità (del resto si era già assegnato un sostanzioso stipendio sulla cui entità aveva preteso l’assoluta segretezza): intendeva devolverli alla Cantina, alleggerendone la situazione debitoria.
In questi giorni è arrivata la sentenza della Corte di appello di Trento: la quale non solo respinge la domanda di risarcimento di Zanoni/LaVis, ma li condanna al pagamento delle spese giudiziarie, oltre 20.000 euro. Si vedrà chi paga (Zanoni? I contadini?); di sicuro alla Cantina, invece dei soldi promessi, arriva un’ulteriore perdita, per quanto piccola rispetto ai debiti di ben altro ammontare (e invece a QT, i cui bilanci sono notoriamente molto più scarni, arriva un significativo sostegno).
Ma non è solo una questione di soldi. Anche se questi sono importanti: è chiaro che una condanna a 480.000 euro ci avrebbe zittiti per sempre; ma anche una a 60.000, come da sentenza di primo grado, ci avrebbe se non intimidito, resi comunque decisamente più prudenti. E del resto questo costume, delle richieste di risarcimento magari campate in aria ma sicuramente stratosferiche, è il mezzo con cui in tutta Italia i potentati locali zittiscono le piccole testate, piegate dalle spese legali e dal vago eppur sempre incombente pericolo della sentenza strampalata. Insomma, è (anche) una questione di libertà.
C’è poi un motivo di soddisfazione più specifico: con la sentenza viene autorevolmente ed esplicitamente riconosciuta la verità dei dati come dei fatti da noi riportati, e la legittimità dei nostri giudizi.
A dire il vero, già in primo grado la sentenza del Tribunale aveva convenuto sulla fondatezza e liceità delle nostre critiche, per di più inserite “nell’ambito di una più ampia ricostruzione del sistema della cooperazione, della sua gestione politica, delle prospettive di riforma in funzione di una sua maggiore democraticità”. Solo che poi, all’interno di anni di articoli di inchiesta, il Tribunale aveva rilevato tre punti in cui si sarebbero riscontrate “informazioni errate, se non del tutto false” e quindi ci condannava.
Nel nostro commento alla sentenza - “L’inchiesta elogiata (e condannata)” su QT dell’aprile 2015 – rilevavamo come fossero incongrui da una parte l’apprezzamento per un’inchiesta ampia, articolata, di sicuro spessore sociale, dall’altra una condanna per qualche secondaria imprecisione. Sarebbe come se a New York negli anni ‘30, di fronte alla costruzione dell’Empire State Building, i collaudatori, riscontrati degli errori nel posizionamento delle piastrelle nel secondo bagno dell’appartamento 14c all’83° piano, avessero prescritto l’abbattimento del grattacielo. “Non si può tagliare le gambe a chi ha svolto un lavoro di tale portata, pluriennale, per via di una svista. – scrivevamo - Vorrebbe dire, nei fatti, proibire il giornalismo d’inchiesta”. Bene, ora la Corte d’Appello ci dà ragione.
Non solo. Nel nostro ricorso in appello avevamo accettato tutto l’impianto della sentenza di primo grado, e invece contestato i tre punti che sarebbero stati basati su “informazioni errate, se non false”; anche gli avvocati di Zanoni avevano accettato l’insieme della sentenza, e invece difeso i tre punti. Per cui tutto il procedimento è finito con il partire da un assunto per noi favorevole: le nostre dure critiche al “patto sciagurato con la finanziaria della Curia” (il patto Isa/LaVis per l’acquisto di Casa Girelli), “la sua opacità”, “l’opinabile comportamento tenuto dai vertici della cooperativa”; la mancata discontinuità tra Zanoni commissario “e la precedente discutibile gestione”; di come “l’immagine della Cooperativa fosse già gravemente compromessa non per gli articoli scritti dal Paris, ma per ben più gravi comportamenti tenuti dai suoi vertici”; “la sussistenza di gravi irregolarità in conseguenza dell’accertata violazione di norme statutarie e legislative” sono risultate per la Corte d’appello punti fermi, ormai accertati. E le ulteriori documentazioni da noi prodotte (in particolare la delibera con cui la Giunta Provinciale rimuoveva Zanoni, ma anche i verbali della Vigilanza cooperativa e l’Indagine sul settore vinicolo di Mediobanca) hanno provato, con la forza dei fatti poi accaduti, come le nostre critiche alla gestione Zanoni non fossero “né gratuite né infondate, essendo risultato in definitiva inutile il periodo di commissariamento, posto che la LaVis è alla fine (ri)piombata (o rimasta) ‘in un grave deterioramento della situazione finanziaria e patrimoniale’” (i corsivi sono tratti dalla sentenza, che nelle ultime parole cita la delibera con cui la Provincia poneva fine all’era Zanoni).
Che le cose stessero in questi termini, lo ha peraltro ribadito poi in sede penale – quindici giorni dopo la nostra sentenza in sede civile – anche il Tribunale, che dopo aver condannato Giacomoni, Peratoner e Andermarcher (la triade a capo della Cantina prima di Zanoni) per aver nascosto la fideiussione con Isa, vi ha aggiunto, su esposto di un gruppo di contadini, anche la condanna dello stesso Zanoni il quale, nelle vesti di Commissario, si era ben guardato dal segnalare l’occultamento all’autorità giudiziaria, contravvenendo ad un proprio preciso dovere. Come appunto noi avevamo denunciato.
A questo punto, con le nostre denunce confermate dagli atti giudiziari e dai fatti successivi, chiaramente il processo si iscriveva in un quadro a noi favorevole.
All’interno del quale rimanevano i tre famosi punti che ci erano stati contestati in primo grado. Sulla loro confutazione si concentravano quindi le controdeduzioni presentate dal nostro avvocato Gianfranco de Bertolini, che sentitamente ringraziamo, e il successivo dibattimento. Ed è interessante vedere come questi punti siano stati ad uno ad uno smontati.
La trasparenza
Il primo riguardava le critiche a Zanoni per essersi rifiutato di fornire dati e documenti a un socio, “una consapevole espropriazione dei soci dai loro diritti”. Quei documenti “non rientravano tra quelli accessibili ai soci”, aveva ribattuto in primo grado il Tribunale, condannandoci. La Corte d’appello precisa: se è vero che il socio non aveva il diritto di accedere alla documentazione e che quindi la Cooperativa non era obbligata a fornirla, è anche vero che essa poteva farlo e che quindi la scelta del diniego fu operata non per l’insussistenza di un diritto del socio, ma piuttosto per “ragioni e valutazioni, per così dire, di opportunità”.
Ma allora (e qui il ragionamento della Corte assume un valore più generale) “se all’omessa indicazione della nota fideiussione in bilancio… si aggiunge il fatto che al socio si negava comunque (sottolineatura nell’originale, ndr) di ottenere una qualche informazione in proposito, si intende allora come la frase relativa alla ‘espropriazione’ in danno del socio stesso del diritto di conoscere, non fosse altro che una critica, sia pur aspra e veemente, al comportamento dei vertici della LaVis, in contrasto peraltro con le professioni di trasparenza ed alle affermazioni circa la ‘centralità del socio” di cui si riempiono la bocca (come tanti nel movimento cooperativo, aggiungiamo noi). Insomma, alla faccia di bronzo viene posto un limite: non si può predicare la trasparenza da una parte, e dall’altra omettere trascrizioni in bilancio, rifiutare informazioni ai soci e poi chiedere condanne per chi critica tale comportamento.
Secondo punto: noi avevamo posto (citiamo dalla sentenza di condanna in primo grado) “nuovi interrogativi, riguardanti non più la vecchia gestione, ma quella del Commissario Zanoni”, sostenendo che “l’avviato risanamento della LaVis sarebbe soltanto una ‘versione ufficiale’, contrabbandata dal Commissario alla stampa locale”; e l’avremmo fatto senza portare motivazioni, anzi fornendo “informazioni errate, se non del tutto false”, attribuendo al bilancio 2010/11 “‘quasi 80 milioni di debiti (79,6 per la precisione)’”, mentre in realtà erano 65.247.433. In Appello abbiamo fatto presente come sempre, in tutti i nostri servizi, avessimo parlato dei dati di bilancio del gruppo LaVis, non della singola cantina; e che i debiti del gruppo al giugno 2011 erano 128 milioni, non 65.
La corte d’Appello ci dà ragione; come pure concorda sul fatto che il nostro errore in difetto (avere scritto di 80 milioni di debiti quando invece erano 128) non fosse assolutamente diffamatorio per la Cantina e per Zanoni, anche perché l’errata informazione di 80-85 milioni di debito era già apparsa in varie sedi, tra cui un’interrogazione in Consiglio Provinciale poi ripresa dagli organi di stampa, e mai contestata. Non solo: anche il giudizio complessivo sul commissariamento risulta pertinente e fondato, come si può vedere dagli atti con cui la Giunta Provinciale defenestrava Zanoni, da cui “emerge più che chiaramente che la situazione della LaVis non pare migliorata affatto rispetto al periodo precedente il commissariamento, ed appare semmai peggiorata”.
Infine il terzo motivo della condanna in primo grado: avevamo portato, come prova della contiguità tra il commissariamento di Zanoni e la precedente amministrazione, la nomina di Fausto Peratoner nel cda della controllata americana FWI, nomina di cui non avremmo fornito alcuna prova.
La Corte d’Appello fa invece rilevare come noi avessimo già in primo grado depositato la homepage del sito della FWI, da cui figuravano come “officers” Cesare Andermarcher, Fausto Peratoner ed Eberhard Tamm, e che quindi “la notizia era, semmai, inveritiera per difetto” perché “nell’amministrazione di FWI era entrato non il solo Peratoner, ma anche Cesare Andermarcher”.
Di qui la conclusione: “Le serrate e veementi critiche formulate nei confronti (anche) della gestione commissariale… si fondavano su dati di fatto”.
La sentenza ha quindi ristabilito la verità anche per quanto riguarda quegli elementi che erano stati evidentemente male interpretati in primo grado. A questo ribaltamento del giudizio, quindi, si è arrivati grazie ad una più corretta disanima dei tanti dati forniti; ma anche grazie ai successivi avvenimenti che hanno a posteriori portato nuove prove della correttezza della nostra inchiesta; e infine grazie pure – almeno così vogliamo interpretare – a un diverso approccio della Corte, che probabilmente pensa che non si possa abbattere l’Empire State Building per alcune piastrelle fuori posto.
Come dicevamo in apertura, tanti potenti, in tante parti d’Italia, cercano di utilizzare l’azione davanti alla Magistratura, strumento garantito dalla Costituzione e talora doveroso, come metodo per intimidire l’informazione. La Corte non si è prestata a questo gioco, e la tracotanza di Zanoni e LaVis è risultata controproducente: riteniamo sia una buona notizia, e non solo per noi.