Sotto lo sguardo del maschio
Il corpo delle donne e il mito dello stupratore romeno
Fate questo piccolo esperimento da “etnologi nella metro”: appostatevi in un luogo di passaggio in città, magari vicino alla fermata di un autobus, e cercate di sorprendere gli sguardi dei maschi quando passa una donna. Noterete che pochi si trattengono dal lasciare vagare in modo lascivo il loro sguardo.
Ma quando è un immigrato a dimostrare queste fastidiose attenzioni verso una passante, magari con atteggiamento aggressivo, subito il maschio italiano si irrigidisce e l’atmosfera si fa più tesa. Una reazione legittima - si potrà pensare - per difendere la vittima di un atteggiamento maschilista e violento. Non è così: la donna non va protetta da chi le toglie il suo diritto a passeggiare tranquillamente per la pubblica via; semplicemente nel maschio italiano scatta un retrivo meccanismo di possesso che non è altro che lo specchio del maschilismo dell’immigrato. Un meccanismo ben descritto dall’adagio popolare “mogli e buoi dei paesi tuoi”, che - oltre ad assimilare la donna a un essere senza volontà propria - introduce in quel “tuoi” l’idea del possesso maschile.
Un rapporto, quello tra immigrazione e sesso, denso di contraddizioni, delicato e spesso luogo di costruzione di spregevoli pregiudizi razzisti.
Perché la sessualità degli immigrati è uno scandalo. Scrive Abdelmalek Sayad, sociologo francese: “In quanto il lavoratore immigrato è un individuo che ha come sola ragione d’essere il lavoro, e per questa ragione la sua presenza è legale, autorizzata e legittima solo se subordinata al lavoro, egli fa la duplice esperienza di un’esistenza ridotta al corpo che la materializza e che ne è anche lo strumento. Egli è il solo lavoratore le cui altre funzioni sono interamente riducibili alla funzione primaria del lavoro, mentre al limite le altre funzioni sono inesistenti”.
Si presume dunque che l’immigrato - oltre a non ammalarsi, a non divertirsi, a non ridere - non possa avere una vita sessuale, tanto più con una donna non immigrata. Si sprecano nella storia dei deliri razzisti del secolo scorso gli appelli alla popolazione bianca americana a non mischiare il proprio sangue con quello degli immigrati italiani, che secondo gli “scienziati” di quegli anni erano l’anello intermedio tra i neri e i bianchi.
Essi erano una sorta di niggers, che - come gli afroamericani - erano guidati soltanto dai loro istinti più bestiali, tra cui una insaziabile frenesia sessuale che, si diceva, li portava facilmente allo stupro.
Nel suo libro del 1981 intitolato “Women, Race and Class” Angela Davis - attivista afroamericana per i diritti civili - denunciava il mito dello “stupratore nero”: più di vent’anni sono passati, eppure pare non essere cambiato nulla. Dopo la Francia, caduta preda qualche anno fa della paranoia della violenza sessuale di gruppo, imputata invariabilmente a uomini di origini arabe, ora tocca all’Italia, che ha scoperto nei rumeni un popolo barbaro e aggressivo, dedito alla violenza sessuale.
In seguito all’orrenda vicenda dello stupro della Caffarella e alla sua folle mediatizzazione, è scattata la ritorsione: nei due giorni successivi si sono verificati (secondo l’Associazione Everyone) 18 episodi di aggressione contro Rom, rumeni e stranieri.
Il 15 febbraio sera, a Roma, una ronda armata di mazze e composta di 20 persone con i volti coperti ha pestato cinque Rom romeni, un cittadino romeno, una madre Rom con la sua bambina e due ragazzini Rom.
Eppure - come ha spiegato recentemente Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell’Istat - non più del 10% degli stupri commessi in Italia sono attribuibili a stranieri. Secondo l’istituto di statistica, il 69% degli stupri sono opera di partner, mariti o fidanzati; solo il 6% sono opera di estranei. Se anche si considerasse che di questi autori estranei il 50% sono immigrati, si arriverebbe al 3% degli stupri. Se si aggiungesse il 50% di conoscenti, al massimo si arriverebbe al 10% del totale degli stupri a opera di stranieri.
E allora perché tanto odio? Ancora una volta il corpo delle donne è il terreno di battaglia di una cinica partita politica: “Da una parte si fomenta, agitando uno dei fantasmi più tenaci di un certo immaginario in specie maschile, il razzismo mai sopito degli italiani brava gente e un allarme sociale che permette di varare decreti d’urgenza contro i/le ‘clandestini-e. Dall’altra (e concordemente), amplificando ad arte la percezione del rischio stupro da parte di sconosciuti (stranieri) si trasforma la violenza sulle donne in un problema di ‘ordine pubblico’, in una questione di sicurezza e di controllo del territorio”, scrive Vincenza Perilli sul suo Blog (www.marginaliavincenzaperilli.blogspot.com).
Eccolo qua il rovescio dello sguardo ambiguo del maschio alla fermata del bus: sembra difendere la donna dalla violenza e invece non fa che nascondere la sua - attuata in tutta tranquillità tra le mura domestiche - facendone ricadere la colpa sullo straniero.
“Sappiamo - scrive ancora la Perilli - che la violenza contro le donne non ha confini geografici, né di cultura o religione ma è l’espressione di un violento rapporto di potere (che è sociale, politico ed economico) esercitato dagli uomini (non come categoria ‘naturale’, ma ‘sociale’: ‘bianchi’, eterosessuali, borghesi, cattolici...) sulle donne”.