Festival dell’Economia
La decima edizione è dedicata alla mobilità sociale: grandi nomi, un po’ di ‘nuova sinistra’ e argomenti delicati
Si è conclusa la decima edizione del Festival dell’Economia di Trento, quest’anno dedicato alla mobilità sociale.
Hanno tutti le medesime possibilità di migliorare la propria condizione economica e sociale? Che cosa impedisce che ciò avvenga?
Queste sono solo alcune delle questioni che la crisi e l’aumento delle disuguaglianze sociali hanno reso più pressanti.
Per rispondere a tali domande, gli organizzatori del Festival hanno portato a Trento alcuni tra i più celebri economisti internazionali: Joseph Stiglitz, Thomas Piketty, Anthony Atkinson, Lucrezia Reichlin, Dani Rodrik, Paul Krugman, per citare i principali.
Ma tolti i grandi nomi, le conseguenti lunghe file per entrare al Santa Chiara, gli sprazzi di arancione del Festival che sembra abbinarsi con qualsiasi vestito, l’atmosfera rilassata del centro con i bar pieni, i completi rosa shocking della Dominici, cos’è stata questa edizione del festival?
Gli economisti
Tra gli incontri più attesi di quest’anno c’era sicuramente quello con Thomas Piketty, l’economista francese divenuto celebre negli ultimi anni per i suoi studi sulla disuguaglianza.
Piketty ha illustrato alla platea dell’auditorium alcune parti del “Il capitale nel XXI secolo”, il libro con il quale ha ottenuto fama internazionale. Presentando in piedi e avvalendosi di slides e grafici - in una maniera sicuramente inusuale rispetto ai grandi appuntamenti che siamo abituati a seguire al Festival - l’economista francese ha illustrato alla platea come le rendite di posizione rappresentino il più grande ostacolo alla mobilità sociale.
Tema che è emerso con insistenza, è il rapporto tra mobilità sociale ed istruzione. L’economista di Oxford Tony Atkinson, che ha passato una vita a studiare la disuguaglianza, ha messo in luce come il sistema educativo non contrasti, bensì perpetui, lo status quo.
La possibilità di accedere all’università, ad esempio, è ancora oggi fortemente legata al background socio-economico della propria famiglia. Invece che ridurre le disuguaglianze e favorire la mobilità sociale, quindi, l’università permette a coloro che hanno i mezzi di mantenere i privilegi acquisiti.
Renzi e co.
Sorprendente - ma nemmeno tanto - che gli unici a non parlare di mobilità e disuguaglianze siano stati i due rampanti leader della sinistra europea, Matteo Renzi e Manuel Valls, che sono intervenuti all’Auditorium Santa Chiara poche ore prima di Piketty. Il primo ministro italiano e il suo omologo francese non hanno mai nascosto di voler rappresentare una “nuova sinistra”, che nel corso dei loro interventi hanno contrapposto ad una presunta “sinistra rivoluzionaria” ormai superata. Forse tra le sue caratteristiche questa nuova sinistra ha la predilezione per altre tematiche, relegando a questione minore la lotta contro le disuguaglianze sociali. A quest’ultima viene preferito un più vago e classista mantra del merito, soluzione principale per risolvere le ingiustizie sociali.
Ma può il merito essere il motore della mobilità sociale? O forse, come hanno suggerito in questi giorni Piketty, Atkinson e molti altri, il concetto di merito da solo perpetua le disuguaglianze ed è dunque conservatore.
I temi che trovano l’entusiasmo di Valls e Renzi sono altri: la lotta all’Europa dell’austerity (che il Presidente del Consiglio promette per settembre), l’immigrazione (su cui i due dovrebbero essere tutto tranne che d’accordo) e le imminenti elezioni regionali.
Renzi è in forma, e scherza in continuazione. La platea applaude ogni battuta, chiaramente trainata da una claque e dalle ossequiose prime file.
E quindi?
Non è facile capire quanto rimarra di tutto ciò a Trento una volta spente le luci del festival e rimosso il maxischermo da Piazza Duomo. Per alcuni giorni la città è bellissima, l’aria che si respira per le strade è di fermento culturale, con le persone che passeggiano discutendo di grandi questioni economiche e sociali. Ma le istituzioni trentine, che promuovono e finanziano l’evento, hanno imparato a far tesoro delle soluzioni proposte ogni anno dai grandi nomi radunati in città?
Una domanda alla quale, arrivati al decimo anno di Festival, ci rincresce non poter rispondere senza esitazioni.
L’opinione di Lidia Menapace
A Trento in questi giorni è presente anche Lidia Menapace, in visita in città seppur non per prendere parte agli eventi del Festival. L’abbiamo incontrata e le abbiamo posto alcune domande:
Le piace il Festival?
È bello che il Festival riesca ad avvicinare tante persone ai temi dell’economia ed è bene che vi siano iniziative di carattere divulgativo come questa. In altri paesi la tradizione della divulgazione scientifica è da tempo molto più radicata. Da noi, invece, c’è il rischio che diventi qualcosa di slabbrato, delle grandi fiere dove si sentono ripetere cose già sentite altrove e il dialogo praticamente non esiste.
La mobilità sociale era il tema della decima edizione del Festival. Ritiene sia un argomento cruciale?
La mobilità sociale, oggi, è possibile solo all’interno della classe borghese. Da quando la borghesia è diventata classe egemone - e ancor di più a partire dal sessantotto - ha dato l’illusione l’obbligo scolastico e l’università di massa fossero sufficienti a garantire la mobilità sociale. La stessa Costituzione italiana, quando afferma che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, lascia intendere che, se i mezzi ce li hai, potrai comunque arrivare ai gradi più alti dell’istruzione. Oggi però sappiamo che anche questi successi della socialdemocrazia europea non sono più sufficienti a garantire l’uguaglianza delle opportunità.
A suo giudizio, in che modo l’istruzione può influire sulla mobilità sociale?
L’istruzione rappresenta sicuramente un mezzo cruciale per favorire mobilità sociale. Tuttavia, sebbene l’accesso all’istruzione sia ormai garantito universalmente, è chiaro che se uno studente proviene da una famiglia agiata avrà certamente meno ostacoli ad affermarsi negli studi e nel lavoro. Si è imposto - sbagliando - il criterio del merito. Se però l’accesso alla cultura è da considerarsi come un diritto, i diritti non si meritano. Il merito finisce per diventare la foglia di fico che maschera e riafferma disuguaglianze già esistenti nella realtà.
L’economista eretico
Non aver paura del deficit pubblico, sfondare il limite del 3% imposto dall’Unione Europea, e all’occorrenza uscire dall’euro. Questa l’analisi e la ricetta proposta in una serie di dibattiti svoltisi in parallelo al Festival dell’Economia, organizzato da associazioni di cittadini sostenitori della Mmt, Modern Money Theory (Teoria della Moneta Moderna). E che ha visto la partecipazione di economisti “eretici”: Randall Wray, professore di economia all’Università del Missouri-Kansas City, Warren Mosler, economista e visiting professor all’Università di Trento, e Riccardo Bellofiore dell’Università di Bergamo. «L’inclinazione recessiva dell’Unione Monetaria Europea», era il titolo dell’evento che si è tenuto lo scorso 17 maggio nell’ateneo trentino. Un’iniziativa che ha suscitato l’interesse di un centinaio fra cittadini, studenti, professionisti, imprenditori e politici.
Il punto di partenza è stata una fotografia degli eventi di questi ultimi anni: eccessiva crescita dei debiti di famiglie e imprese, una scarsa regolamentazione del sistema bancario, l’impossibilità da parte dei governi di poter intervenire in funzione dei vincoli europei. E siamo ancora in piena crisi economica. Che fare?questo il tema
I primi due interventi sono stati di Wray e Mosler, entrambi americani e principali esponenti della Mmt. «La crisi che ha colpito l’Eurozona a partire dal 2008 non è stata, come comunemente si pensa, un problema di debito pubblico — ha spiegato Wray — ma un problema di debito privato. Dopo l’entrata nell’euro, i cittadini, hanno fatto ricorso sempre di più al credito bancario per effetto di una minore spesa nell’economia da parte dei governi, finché, a seguito dello scoppio della crisi americana, le banche hanno chiuso i rubinetti». Tutto questo, secondo il docente di economia, ha creato uno scompenso che gli Stati dell’Eurozona non sono stati in grado di arginare con un’adeguata riduzione della pressione fiscale o un’adeguata spesa in deficit,emettendo moneta, visto che l’euro non può essere emesso dagli stati dell’Unione Monetaria e ciò «ha ridotto l’Italia a uno stato simile a quello di un paese colonizzato». «Negli Stati Uniti — ha mostrato Wray con un grafico inequivocabile — il disavanzo pubblico, nel 2009, ha superato il 12% del Prodotto Interno Lordo, mentre nell’Eurozona è andato appena oltre il 6% del Pil». Insomma, il governo Usa ha speso più del doppio rispetto all’Eurozona, soggetta al vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil.
Da questo punto è ripartito Warren Mosler, il quale ha fatto notare come l’alto tasso di disoccupazione sia dovuto al crollo delle vendite di beni e servizi. Vendite che possono crescere solo in due modi: o attraverso l’indebitamento (e abbiamo visto che i rubinetti delle banche sono chiusi) o attraverso i risparmi, che negli ultimi anni si sono ridotti sensibilmente, e che potrebbero crescere soltanto attraverso un incremento del deficit governativo. Ma anche in questo caso i vincoli europei non permettono un disavanzo superiore al famoso 3%. «Una soluzione sarebbe quella di portare il rapporto deficit/Pil dal 3 all’8%, riducendo la pressione fiscale e/o aumentando la spesa pubblica — ha proposto Mosler —. Nel caso la UE dicesse di no, l’Italia dovrebbe iniziare a emettere e utilizzare delle nuove lire». Si tratterebbe di una scelta che di fatto porterebbe l’Italia fuori dall’euro. Un’ipotesi drastica ma perfettamente gestibile a parere dell’economista americano.
Secondo Riccardo Bellofiore, invece, l’abbandono dell’Eurozona da parte dell’Italia in questo preciso momento sarebbe troppo rischioso, mentre, al contrario, sarebbe necessario un centro fiscale europeo unico che ridistribuisca la ricchezza. Allo stesso tempo, però, il docente ha espresso le sue forti perplessità sul senso della moneta unica, che risalgono alle origini dell’euro: «Entrare nell’Eurozona è stato un errore, soprattutto per l’Italia» — ha detto Bellofiore — «lo dissi già in tempi non sospetti, ma non fui ascoltato».
L’interesse verso questi argomenti ha mosso il pubblico a interrogare i relatori su riflessioni troppo spesso lontane dai media mainstream, dimostrando il successo di un evento, reso possibile grazie all’impegno degli attivisti MMT italiani e trentini, alla professoressa Elisabetta De Antoni e al professor Geremia Gios, preside del Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Trento.
Matteo Bernabè - mbernabe@me.com