La Pravda a Trebaseleghe
A farcela nella crisi sono soprattutto le medie imprese che internazionalizzano e fanno rete. Il caso della Grafica Veneta. Da “Una Città”, mensile di Forlì.
Quello che stiamo vivendo non è un momento congiunturale, è un cambiamento strutturale, le cose non torneranno come prima, in quanto è cambiato radicalmente il contesto. Viviamo in un condominio mondiale e quello che succede ha un impatto su di noi: un impatto negativo, perché il nostro modello di sviluppo non regge il confronto con altri territori. Non penso alla Cina, al Brasile o all’India, ma alla Francia e alla Germania, che in passato hanno avviato dei processi di riforma. Noi invece siamo rimasti sostanzialmente fermi.
Le peculiarità che ci avevano consentito, negli anni ‘70 e ‘80, di affermarci sul piano mondiale, anche come sistema produttivo, oggi non sono più elementi di competitività. La nostra struttura produttiva è composta, per nove decimi, da microimprese sotto i dieci dipendenti, che hanno prevalentemente un mercato locale. Sono imprese spesso a gestione familiare che non hanno reinvestito la loro ricchezza nell’attività, ma hanno comprato case, aperto altri negozi, eccetera; insomma, si sono arricchiti ma non hanno arricchito l’azienda. Ovviamente non tutti, ma una quota considerevole.
Per non deprimersi, è utile guardare a quelle imprese e a quei settori che hanno saputo reggere la competizione internazionale, per provare a trarne delle indicazioni.
La prima osservazione è che a farcela oggi sono soprattutto le medie imprese, quelle fra i 50 e i 250 dipendenti. Analizzando le loro performance economiche, viene fuori che in questi anni, hanno creato più ricchezza e più occupati anche rispetto alle grandi imprese.
Per prima cosa si sono internazionalizzate. Internazionalizzarsi non vuol dire delocalizzarsi. Con “delocalizzazione” intendiamo l’impresa che ha la struttura produttiva in Italia e decide di far fare le scarpe a Timisoara, per poi reimportare il semilavorato e commercializzarlo qui. Questa operazione è stata in voga tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90 e si è rivelata una logica più di tattica che di strategia, perché risponde esclusivamente alla domanda: dove posso andare a produrre spendendo meno? Ora, per mettere in atto questi processi, ci vuole uno studio, e poi ci vogliono investimenti; non è che io domattina alzo il telefono... E una volta che mi sono impiantato in un territorio e ho trovato la manodopera disponibile e capace, all’inizio posso anche pagarla poco, però, nel tempo, porto sviluppo e con questo aumentano le richieste, arrivano i sindacati e il costo del lavoro aumenta: così, nel giro di 4/5 anni non mi conviene più produrre lì e quindi dovrei andare in cerca di un altro posto..
È allora invalsa un’altra strategia: la internazionalizzazione o multilocalizzazione. Probabilmente, la logica è sempre quella di andare a produrre dove costa di meno, la novità è che io vado in un certo luogo perché stimo che il mio prodotto possa diventare leader su quel mercato. Quindi vado e produco tutto lì. Alcuni ipotizzavano che in tal modo ci sarebbe stato un impoverimento del tessuto locale. Ma i dati dimostrano che non è così: se io prima avevo bisogno di tanti operai, soprattutto per “fare” il prodotto, adesso ho bisogno di tecnici, amministrativi, esperti di logistica, di ricerca, perché la testa la tengo qui e faccio fare il lavoro soprattutto da un’altra parte. Se prendiamo la Lotto, la Geox - ma ne potremmo citare tante altre - sono imprese censite come “fabbrica tessile”, ma in realtà gli operai non ci sono più. Ci sono tecnici, ricercatori, esperti di marketing, di logistica, eccetera, figure che governano la produzione. Queste operazioni spostano verso l’alto la domanda di professionalità di quel territorio.
Possiamo avere anche esperienze di internazionalizzazione fatta in casa. Una delle esperienze emblematiche è la Grafica Veneta di Trebaseleghe (Padova), diventata famosa perché stampava “Harry Potter”. La Grafica Veneta non fa alcuna produzione all’estero, però il 70% del suo fatturato è fatto all’estero.
Su cosa ha lavorato quell’imprenditore? Soprattutto sulla velocità di realizzazione dei prodotti, quindi ha aumentato i volumi per avere più margine. Poi ha fatto anche delle innovazioni: la fabbrica è molto pulita e c’è una foresteria interna per i clienti stranieri che così possono vedere come si lavora. Inoltre lavora sette giorni su sette, 24 ore su 24, con turni. Insomma è un’impresa internazionalizzata, ma è tutto a Trebaseleghe.
Se io, pur rimanendo qui, riesco a mantenere qualità, velocità e innovo, divento, come si dice, un player internazionale. I magazine della Pravda li stampano a Trebaseleghe, così come i libri del Papa.
Mettersi insieme
Abbiamo così introdotto il secondo elemento, l’innovazione. Anche qui bisogna intendersi: l’innovazione non è solo innovazione tecnologica, è anche riorganizzazione, oppure investimento nel marchio, nell’identità del prodotto. Nel settore agro-industriale abbiamo delle eccellenze di rilievo. Soprattutto il settore vitivinicolo in questi anni ha fatto un grande passo avanti da un punto di vista tecnologico, ma non solo. Negli anni ‘80, in Veneto in particolare, ci fu lo scandalo dell’etanolo: qui si faceva il vino con le polverine. Cancellata tutta una serie di aziende, cos’ha fatto chi è rimasto per risollevare il settore? Investimenti in ricerca, tecnologia e brand.
Innovazione e internazionalizzazione vanno a braccetto: se internazionalizzo, sono costretto a innovare, e se innovo mi internazionalizzo.
Un’altra precisazione: quando parliamo di internazionalizzarci, non possiamo pensare di farlo andando in Germania o in Francia, perché l’intera Europa è in crisi. E per farlo, devo essere un’impresa almeno di medie dimensioni, o anche piccola, purché inserita in una filiera con altre imprese che hanno internazionalizzato.
Ecco, allora, che viene il terzo elemento: l’aggregazione, lo stare insieme. Le imprese italiane che sperimentano una forma di aggregazione, sono circa un quarto, soprattutto nel settore industriale.
In Italia, le medie imprese sono circa 4.000. Verrebbe da dire: con 4.000 imprese dove vuoi andare? Ma queste imprese lavorano in rete, cioè con una filiera. Fatto 100 il prodotto di una media impresa, l’80% è fatto dai suoi fornitori. Mediamente, nel nord d’Italia, una media impresa ha circa 240-250 piccoli fornitori. Cosa succede? Che l’impresa che fa dei processi di innovazione, di internazionalizzazione, costringe i piccoli a stare al passo, altrimenti li lascia a terra: “Se tu non puoi, mi cerco su internet un altro fornitore che fa le stesse cose”. Così una parte consistente delle piccole imprese è costretta a fare un salto dal punto di vista del servizio o del prodotto. La Came, in provincia di Treviso, fa cancelli elettrici. Ora, siccome i fornitori locali non hanno i mezzi economici per acquistare i macchinari utili a fare il lavoro che serve, la Came li compra lei e li affida ai fornitori. Chiaro che è un’arma a doppio taglio, perché così vincola i piccoli a un rapporto privilegiato, però intanto costringe quell’impresa a fare un salto tecnologico.
Uno degli effetti della crisi è una polarizzazione netta: da un lato abbiamo imprese che vanno bene e dall’altra imprese che vanno male. La via di mezzo non è data. Quindi c’è un’ampia platea di micro e piccole imprese che sono a rischio, perché i consumi sono piatti, perché le risorse delle famiglie sono scarse e non c’è fiducia nel futuro, e quindi ci pensiamo due volte prima di fare una spesa.
Noi, purtroppo, non abbiamo un sistema Paese, cioè delle istituzioni che agevolino questo processo. Altrove cosa succede? Che il presidente francese e il governatore della banca francese vanno in Cina, stabiliscono delle relazioni e offrono garanzie tali da facilitare lo scambio. Dopo di che, le imprese arrivano, trovano un terreno già pronto e si impiantano. Da noi, purtroppo, in oltre il 60% dei casi, le imprese pigliano la valigetta e vanno da sole. E questo comporta un dispendio di energie e di risorse, perché per andare in Cina devi conoscere non solo la lingua, ma anche la cultura, la legislazione, e così per andare in Polonia o in Lituania... Prima avevamo l’Ice, l’Istituto per il commercio estero, che non funzionava. Ora è stato riaperto, ma ancora non se ne vede traccia. E tutto questo mentre il nostro made in Italy è tornato ad avere un grande appeal. Ci sono settori, come il design e la moda, dove noi siamo al top, e nell’agroalimentare avremmo grandissime potenzialità. Invece che succede? Che il Ministero fa una sua iniziativa, la Camera di commercio ne fa un’altra, la singola Regione un’altra ancora.
Le istituzioni, quando gli fai presente la cosa, rispondono: “Sì, però in Germania o in Francia basta mettere d’accordo quelle quattro o cinque grandi imprese. Qui da noi invece hai a che fare con una pletora di imprenditori, ognuno con le sue esigenze”. Questo è vero, però Berlusconi non è mai andato in Cina, per dirne una. C’era andato Ciampi, a suo tempo, mi sembra con Montezemolo, poi più niente. Questo è uno di quei viaggi che andrebbero fatti almeno una volta l’anno.
L’operaio corregge l’architetto
L’introduzione delle nuove tecnologie negli ambienti di lavoro ha reso i lavoratori più autonomi, nel senso che sempre più persone possono autogestirsi il lavoro. Questo per dire che non ci sono solo elementi di precarizzazione e marginalizzazione. A Vicenza c’è Bisazza, un’impresa che fa le tessere di mosaico per i bagni. Gli operai lavorano in una stanza, con in mezzo, sul pavimento, una sabbiera e sulla scrivania un computer col disegno dell’architetto. L’operaio guarda il progetto, poi prende le tesserine e le mette sulla sabbia per costruire il disegno, poi va al computer e modifica il progetto sulla scorta di quello che deve realizzare perché, come sempre, fra teoria e pratica c’è uno scarto. Insomma, questo lavoratore, che faccio fatica a definire operaio, agisce sul computer e modifica il lavoro dell’architetto, quindi immette dell’autonomia decisionale nel suo lavoro.
Nelle imprese sempre più si lavora in team e sempre meno da soli. Elementi di autonomia, di flessibilità (facciamo un discorso generale, perché poi c’è quello che lavora in fonderia, dove di autonomia ce n’è poca) fanno sì che l’approccio al lavoro muti nella testa della gente. I sindacati, purtroppo, non hanno fatto una riflessione su questi cambiamenti, le parole d’ordine sono sempre le stesse, il modo di organizzare la solidarietà è sempre quello. Ma poi, nei luoghi di lavoro, le azioni dei singoli prendono vie diverse. Per esempio, una parte consistente di operai si autorganizza nel fare le richieste, non passando attraverso il sindacato, né andando da soli, ma mettendosi assieme.
In base alle ricerche fatte sui lavoratori dipendenti, risulta che l’approccio prevalente è quello che chiamo “merito-solidale”. Cioè: tutti devono avere le stesse opportunità di partenza, poi ognuno deve correre sulla base del talento e del merito. Questo è l’orientamento culturale prevalente.
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Daniele Marini è direttore della Fondazione Nord Est di Venezia e docente di Sociologia dell’educazione all’Università di Padova.