Swan
L’ornitodanza di Luc Petton
Cosa succede se al momento della schiusa delle uova, invece che mamma cigno i piccoli si trovano di fronte un coreografo visionario?
In bilico tra l’esperimento scientifico e la teorizzazione estetico-filosofica, la ricerca artistica di Luc Petton sembra prendere le mosse da questo curioso interrogativo per approdare ad una vera e propria fusione tra uomo e animale, uno scambio fecondo che il coreografo francese ama definire attraverso il concetto di zooësis (neologismo composto dall’unione delle parole “zoologia” e “poesia”).
Più volte citato come l’evento dell’anno per la stagione di danza trentina, “Swan”, lo spettacolo andato in scena a inizio novembre al Teatro Sociale, ha in effetti registrato il tutto esaurito per due serate consecutive, affascinando sia il pubblico degli appassionati che quello dei semplici curiosi, attratti dall’annunciata presenza in scena di otto cigni.
A prima vista lo stravolgimento del tradizionale rapporto tra uomini e animali parrebbe quasi risolversi a favore di questi ultimi -se non altro a livello numerico-, ma l’evidente utilizzo di cibo da parte delle danzatrici nella parte finale della rappresentazione, riporta inesorabilmente ad una concezione del tutto umana di addomesticamento e di dominio sulla natura (che pur Petton si propone di ribaltare). Anche l’ambientazione teatrale, seppur altamente suggestiva, aggiunge una nota di artificiosità al progetto, che qualche anno fa aveva trovato una declinazione decisamente più consona nella cornice naturale di “Arte Sella”.
Al di là degli esiti e delle impressioni personali, è comunque innegabile il fatto che il rapporto tra cigni e danzatrici raggiunga un tale livello di simbiosi da tramutare queste stesse in volatili. Come lunghi colli sinuosi, le braccia si muovono a tratti dolcemente e a tratti con frenesia, rievocando con un altissimo grado di mimetismo i movimenti più caratteristici dei cigni. Le gambe, in parte ali in parte zampe palmate, permettono loro di incedere dondolando in scena e di abbandonarsi a lunghe immersioni nella vasca che fa da fondale alla scena.
Tutto lo spettacolo è giocato sull’alternanza tra bianco e nero, unico rimando evidente al più celebre tra i balletti romantici: quel “Lago dei cigni” che costituisce allo stesso tempo il modello da imitare e sovvertire.
Dopo una lunga predominanza dei toni più cupi, incarnati dal cigno nero che apre lo spettacolo da malefico protagonista solitario, alla fine il bene trionfa grazie all’irruzione sul palco dei sette cigni bianchi, che intrattengono un serrato dialogo con le danzatrici.
Alcuni semplici ma efficaci espedienti scenici amplificano il processo di metamorfosi delle interpreti, come la grande elica nera che permette loro di provare a librarsi nell’aria con leggera pesantezza o la sottile pioggia che inonda il palco sul finale, in un momento di catarsi e immedesimazione collettiva tra cigni veri e immaginati.
Oltre alla fascinazione, l’attesa di un qualsiasi imprevisto ed un sottile stato di tensione attanagliano il pubblico fin dal principio della rappresentazione, complice anche l’esplicito richiamo al silenzio prima dell’apertura del sipario. E invece tutto scorre fin troppo liscio: l’apertura al rischio e all’improvvisazione, che hanno certamente connotato il processo creativo nella genesi dello spettacolo, non trova adeguato spazio sul palcoscenico, dove tutto avviene in maniera piuttosto meccanica e preordinata. Anche una certa freddezza delle interpreti (pur se connaturata all’essenza stessa degli animali protagonisti) non aiuta il processo di immedesimazione degli spettatori, fin troppo consapevoli della natura ambigua e a tratti aggressiva dei cigni. Forse la scelta di un animale più docile avrebbe permesso a Petton dei risultati ancora migliori di ibridazione!