Egitto: come andrà a finire?
I Fratelli Musulmani, i militari, la democrazia
In questo mesi sembra che i nodi della “primavera araba” del 2011 siano venuti al pettine. Sappiamo quali e quante speranze avessero suscitato i moti popolari che dalla Tunisia al Bahrein avevano preso di mira regimi autoritari pluridecennali invocando libertà, giustizia e democrazia. Molti si erano meravigliati di vedere rinverdire parole e slogan della vecchia Rivoluzione Francese del 1789, forse non rendendosi conto pienamente che quel programma è stato a malapena (e quanto imperfettamente!) realizzato nell’emisfero nord del pianeta, ma resta ancora un miraggio per tre quarti dell’umanità.
Sulle primavere arabe gravavano molti dubbi e domande cruciali. Per esempio: la democrazia non finirà per portare al potere con “libere elezioni” proprio le frange islamiste più agguerrite? L’appoggio militare occidentale agli insorti in Libia (e domani, forse, in Siria) non poneva forse un’ipoteca neo-colonialista su queste rivoluzioni, o non nascondeva magari più prosaici disegni geopolitici di redistribuzione delle zone d’influenza? Sappiamo che il ruolo dell’Italia è uscito ridimensionato dall’intervento occidentale in Libia, da dove peraltro -sarà un caso? - le aziende cinesi che avevano avviato accordi petroliferi con l’ultimo Gheddafi, sono state costrette a sloggiare da un giorno all’altro. La Siria, tradizionale pedina nel Mediterraneo della Russia (pre e postcomunista), potrebbe essere pure l’oggetto di un gioco complesso volto a una normalizzazione filo-occidentale: si vocifera di zone cuscinetto e no-fly zone nei territori siriani ai confini con la Turchia, avamposto di una possibile riorganizzazione delle forse insorte che, come nella vicenda libica, dovrebbero poi gradualmente riconquistare alla causa della democrazia il resto del paese.
In Tunisia e in Libia, nel frattempo, si vedono segni preoccupanti: gli islamisti, approfittando del nuovo spazio di libertà garantito dalle rivoluzioni democratiche, tentano di imporre la “norma islamica” alle donne, nelle scuole, nella vita privata.
In questo contesto, alquanto fluido e gravido di sviluppi imprevedibili, diventa cruciale l’Egitto, il paese guida del mondo arabo, vuoi per ragioni demografiche, vuoi per ragioni storiche e culturali: al-Azhar, il “Vaticano sunnita” orienta da sempre sentimenti e comportamenti delle masse arabe. Le prossime elezioni presidenziali di maggio dovrebbero segnare un momento di svolta: da un lato i Fratelli Musulmani, islamici moderati e riformisti “alla turca”, dall’altro, i Salafiti, islamici integralisti duri e puri, andranno alla conta dei voti. Nell’insieme già controllano il Parlamento, dove le forze laiche che hanno partecipato alla rivoluzione che abbatté Mubarak hanno consistenza limitata. L’unico potere che tiene a bada una deriva islamica è la casta militare, che monopolizza le grandi leve dell’economia, e che prudentemente scelse di sacrificare Mubarak per garantirsi la sopravvivenza.
L’attuale Egitto si regge su un patto non scritto tra i militari e i Fratelli Musulmani, ossia gli islamici moderati. Si tratta di una vera rivoluzione nella rivoluzione: fino all’altro ieri, i Fratelli Musulmani erano stati, nei periodi migliori, a malapena tollerati, e assai più spesso perseguitati, rinchiusi nei lager, torturati, ammazzati dai militari. Nasser se ne era servito per giungere al potere nel 1952, salvo poi disfarsene brutalmente e fare impiccare il loro leader, Sayyid Qutb, nel 1966. Insomma, l’accordo attuale somiglia molto a un patto tra il diavolo e l’acqua santa. Reggerà? E per quanto? Gli scenari che si profilano sono due: uno virtuoso, alla turca, in cui i militari si rassegnano a cedere progressivamente il potere ai Fratelli Musulmani, fino ad accettare dopo un congruo periodo di anni di farsi pacificamente relegare nelle caserme, esattamente come è accaduto alla casta militare in Turchia dopo il successo e il consolidamento dei musulmani democratici di Erdogan. L’altro scenario prevede invece che una delle due parti abbia accettato l’accordo con la riserva mentale di sbarazzarsi dell’altra alla prima occasione. Va da sé che questo secondo scenario sarebbe catastrofico non solo per l’Egitto, ma anche per gli altri paesi arabi che ad esso guardano come al battistrada di questa nuova epoca. L’Europa e l’Occidente avrebbero tutto l’interesse a favorire il primo scenario, a sperare che come accadde con le varie democrazie cristiane (tedesca e italiana in primis) nel dopoguerra, anche la democrazia islamica dei Fratelli Musulmani riesca a impiantare la fragile pianta della democrazia sull’altra sponda del Mediterraneo.