Gillo Dorfles: opere recenti
Ironiche metamorfosi
Sarebbe sbagliato guardare all’opera pittorica di Gillo Dorfles come a una sorta di hobby, di passatempo coltivato dal prestigioso critico e filosofo dell’arte. Il suo fare pittura, e in particolare disegno, ha già smesso di essere qualcosa di strettamente personale e privato negli anni Trenta, ma soprattutto quando, nel 1948, partecipa con Soldati, Munari e Monnet alla fondazione del Movimento Arte Concreta (Mac), sia nella veste di teorico che di artista. Vero è che alla conclusione di quell’esperienza, alla fine degli anni Cinquanta, la sua passione torna nel sommerso del privato, sopraffatta dal preponderante impegno di Dorfles come studioso dei fenomeni artistici contemporanei, per riaffiorare pubblicamente intorno alla metà degli anni Ottanta.
La mostra che gli è dedicata al Mart (fino al 12 febbraio) ci fa vedere che da allora ad oggi il Dorfles pittore non s’é più fermato, e non colpisce soltanto, come è ovvio, per la straordinaria vitalità di un uomo che ha ormai superato i cento anni (una gran parte delle opere sono state dipinte in quest’ultimo anno), ma per la continuità di un linguaggio che rimane sostanzialmente fedele a certe scelte espressive fatte ancora in gioventù, certamente influenzato dai suoi interessi e studi nel campo della psichiatria e dell’antroposofia di Rudolf Steiner, e che percepiamo a un primo sguardo come molto vicino alle ricerche surrealiste. Una pittura che trae origine da un segno fluttuante su un campo cromatico privo di profondità, rapido appunto di un’immagine dal sentore organico, tutta fantastica e in metamorfosi, captata in un misterioso retroterra dell’inconscio e percorsa da una vena grottesca ed ironica. Nell’insieme, si ha l’impressione di qualcosa che risponde solo a una necessità interiore dell’autore, non a preoccupazioni di inseguire la “buona pittura”, la maestria, né di misurarsi con altre ricerche dell’arte contemporanea, anche a costo di apparire anacronistico. Se il disegno è la vera matrice di queste opere (dice Dorfles che fin da piccolo ha avuto la necessità irrefrenabile di “scarabocchiare”) la temperatura emotiva è data da un colore usato spesso per contrasto (si guardi al giallo e nero dell’”Orecchio di Dio”, 1996) senza remore per accostamenti aspri e violenti, ma rivelando poi anche frequenti momenti di preziosità cromatica, fino ad ambiti di eleganza come nelle acquatinte, o nelle piccole lastre di alluminio, o nei mosaici del 2010 e 2011. Però la nota dominante è un’altra, un’assenza di premeditazione e di preconcetti, un gusto ludico e abbastanza dissacrante esaltato spesso da certi titoli (“Anacoreta con inserzione femminile trilingue”, 1989; “Tre figure e una lattuga”, 1990; “Due cornuti”, 1988, e così via), e da queste forme organiche ambigue, talvolta in simbiosi, in cui anche l’affioramento di archetipi è passibile di letture diverse e divertite.
La domanda che è sorta, dopo il 1985, tra coloro che hanno cominciato ad occuparsi di Dorfles quando si capì che, come pittore, tornava a fare sul serio, esponendo in luoghi via via più importanti, fino alla mostra del 2001 al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano, e senza poi mai smettere, era ed è quale rapporto possa esistere tra il suo essere critico e teorico dei fenomeni artistici (tra l’altro ha presieduto la giuria della Biennale di Venezia, per dirne una) e il suo essere artista. Non che le due cose non possano coesistere, ma merita attenzione il fatto che il Dorfles pittore appare immune e indifferente ai linguaggi delle diverse neoavanguardie che ha frequentato e finemente interpretato come critico, ed anzi che il fondamento mitico e psichico della sua opera va sostanzialmente in direzione opposta. A questo proposito, va citato il parere di Marco Meneguzzo, secondo il quale, pur nei modi dell’intellettuale mitteleuropeo, Gillo Dorfles mette in campo, come artista, una massima che pare Zen: dimenticare è altrettanto importante che ricordare. In altre parole, a fronte del grande uso di costruzioni intellettuali, il suo far proprio l’automatismo della lezione surrealista sarebbe “il tentativo di sfuggire a tutto ciò che abbia a che fare con una cultura accumulata nel corso del tempo, per ritornare a uno stato primigenio”, o almeno “ad uno stadio in cui intelletto e cultura abbiano il ruolo più marginale possibile”.